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 2015  marzo 16 Lunedì calendario

Il suicidio dell’ex giudice condannato per ’ndrangheta. Giancarlo Giusti aveva tentato di impiccarsi in carcere già nel 2012. Intercettato disse: «Dovevo fare il mafioso»

La sentenza della Cassazione che ha reso definitiva la condanna a 3 anni, 10 mesi e 20 giorni per concorso esterno in associazione mafiosa è arrivata il 5 marzo, due giorni prima del suo 48esimo compleanno.
L’ex giudice del Tribunale di Palmi Giancarlo Giusti ha ricevuto la notizia della condanna nella villetta di via Caracciolo a Montepaone Lido, provincia di Catanzaro, dove aveva l’obbligo di dimora per motivi legati alle «condizioni precarie di salute» dopo che il 28 settembre del 2012 aveva tentato di impiccarsi nel carcere di Opera. Il giorno prima era arrivata la condanna in primo grado del gup di Milano Alessandra Simion a quattro anni per i suoi rapporti con il presunto boss Giulio Lampada, imprenditore delle slot machine legato alla famiglia Valle e al potentissimo clan Condello di Reggio Calabria. Ieri mattina il corpo senza vita dell’ex giudice Giusti è stato scoperto da un parente che non era riuscito a mettersi in contatto con lui. Si è impiccato con un cavo d’acciaio legato a una finestra della taverna.
Non ha lasciato messaggi, non una parola per spiegare la sua decisione. Per il pm di Catanzaro Fabiana Rapino e i carabinieri del Nucleo investigativo s’è trattato di un gesto volontario. Una scelta che, come sostengono i suoi legali, aveva meditato proprio dopo che la condanna per i suoi rapporti con il clan della ’ndrangheta era diventata definitiva. In una lunga intervista rilasciata a metà febbraio via webcam a Klaus Davi aveva ribadito che quelle accuse, culminate nell’arresto nel novembre del 2011 per l’inchiesta coordinata dal capo della Dda di Milano Ilda Boccassini e dal pm Paolo Storari e nella sospensione voluta dal Csm, erano «ingiuste»: «Ho frequentato Giulio Lampada come un amico, per me era un momento difficile, avevo appena concluso la relazione con mia moglie».
Poi un anno fa le nuove accuse d’avere favorito la scarcerazione di tre affiliati al clan Bellocco di Rosarno. Nelle carte dell’inchiesta Valle, c’è il racconto affidato a un diario personale delle notti con le escort al Grand Hotel Brun di Milano pagate dalle carte di credito di Giulio Lampada (14 anni in appello). Intercettato dalla polizia diceva: «Io dovevo fare il mafioso, non il giudice».
Il 30 marzo di tre anni fa davanti al gip Giuseppe Gennari, in un drammatico interrogatorio nel quale ad assisterlo c’era l’ex moglie, l’avvocato Teresa Puntillo, Giusti aveva raccontato del suo incontro con Lampada: «Dopo essere stato cacciato da casa sono andato in depressione. Mi sono aggrappato a questa persona solare, sveglia. Con lui mi sentivo rinato».