Corriere della Sera, 13 marzo 2015
Per non cancellare la Siria. Il Paese, dopo 1.400 giorni di guerra è devastato. La peggiore crisi umanitaria del nostro tempo è un’ingiustizia del mondo che deve diventare un dolore di tutti
Il poeta siriano Adonis, che vive in esilio a Parigi dagli anni Ottanta, racconta di sognare ogni notte Damasco. Facciamolo anche noi. Non è difficile, perché i sogni possono venire invocati e aspettati prima che il sonno arrivi ad addormentare i pensieri. Ci servirà a non dimenticare la Siria. La peggiore crisi umanitaria del nostro tempo – come recita un sinistro ritornello che rimane molto spesso inascoltato – non deve essere cancellata nemmeno per un attimo dalla polverosa lavagna del nostro immaginario. Per nessuna ragione, in nessun momento. Questa feroce ingiustizia del mondo deve diventare un dolore di tutti.
In quattro anni di conflitto hanno perso la vita 220.000 persone, mentre quasi quattro milioni di profughi sono fuggiti in Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Egitto e non hanno nessuna speranza di tornare a casa. «Molti rifugiati vivono in condizioni disumane. Dopo anni di esilio hanno esaurito i loro risparmi e molti cercano di sopravvivere con l’accattonaggio, la prostituzione o attraverso il lavoro minorile», ha ricordato ieri l’alto commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, il portoghese Antonio Guterres.
Ancora più alto è il numero degli sfollati. Decine di migliaia di persone si trovano in trappola nelle zone dove infuriano i combattimenti o sono sottomesse alla follia criminale dei guerriglieri che sventolano le bandiere nere dell’Isis nei territori da loro controllati. Il buio si estende come una macchia, alimentata da sempre nuovo sangue. Tutto è cominciato nel marzo 2011. La repressione della rivolta contro il regime di Assad si è poi trasformata in una guerra civile che ha smembrato il Paese e ha permesso all’estremismo islamico di combattere la sua terribile battaglia.
Sognare Damasco è possibile, anche per chi non ha mai visto la luce arrivare all’alba sulla città lasciando in una penombra provvisoria e magica il monte Qasioun, che la domina quasi come una quinta di cartapesta, da cui le forze di Assad lanciarono nell’estate del 2013 razzi armati di testate chimiche, come accertarono gli esperti dell’Onu. Ma quale Damasco dobbiamo sognare? Non certo la capitale di un regime autoritario che è stato per anni il principale avamposto mediorientale del mondo diviso in blocchi, con i poliziotti senza divisa e le spie che affollavano gli alberghi frequentati dagli occidentali e dall’élite politico-economica locale. La Damasco che vorremmo è una città colta, animata dalla sua eccezionale e millenaria storia, dove la primavera araba sarebbe potuta diventare una vera rivoluzione se il regime non avesse approfittato di una impunità prolungatasi per troppo tempo e non avesse potuto servirsi di un apparato militare consolidato nell’indifferenza generale. Un’utopia? Forse. Ma è vero anche che la comunità internazionale ha il dovere, e il diritto, di aiutare a governare i processi di cambiamento cercando di individuare gli scenari da costruire. Come non ha fatto in questo caso. Come non ha fatto purtroppo, per citare un altro esempio, nella Libia del colonnello Gheddafi.
Le luci invece si sono spente, la gente si è assuefatta alla morte. Le immagini della distruzione di Aleppo, una delle più antiche città del mondo abitate senza interruzione nel corso dei secoli, sembrano provenire da un manuale sulle rovine che provoca la guerra. Una metà è controllata dalle forze governative, l’altra dall’opposizione armata. I palazzi sono sventrati dalle bombe, mancano l’elettricità e l’acqua corrente, la popolazione è quasi interamente fuggita. L’obiettivo della diplomazia internazionale è attualmente solo quello di «congelare» i combattimenti e di riavviare un processo interrotto. Ma il tempo stringe e le speranze di una soluzione sono scarse. Intanto la Siria scompare. E i sogni rischiano di trasformarsi in incubi.