Corriere della Sera, 13 marzo 2015
Anima greca, cuore gitano e umanità siciliana. Diego Della Palma racconta i suoi trucchi. Anche quelli per vivere meglio
«Nella mia carriera ho usato più carezze che ombretti». Quando è a Taormina, dove trascorre da un po’ di anni gran parte del tempo, Diego Dalla Palma affronta la folla del corso principale, tutto di bianco vestito, svettando per la statura superiore alla media. Le signuruzze a braccetto del marito, le giovani in comitiva, i ragazzi gay, tutti lo fermano per stringergli la mano e farsi fotografare con lui. Diego dispensa sorrisi e consigli: un curatore d’anime. La popolarità che dà la tv resta fuori discussione. «Pazienza che qui come altrove spesso sbaglino il mio nome e mi chiamino Diego Della Valle. Ma mi hanno scambiato anche per Gianni Versace, pace all’anima sua; e a Jil Sander, senza sapere che è una donna...».
Aneddoti raccontati con la cantilena veneta e conditi con una risata. Ma il bambino cresciuto a Làmbara tra le malghe dell’altopiano di Asiago con addosso l’odore del letame dei maiali; il giovane che partendo dal nulla s’inventò alla fine degli anni 70 a Milano il rivoluzionario laboratorio d’immagine Make up studio e che fu definito dal New York Times «il profeta del make up italiano», è stato sempre il più coraggioso a togliersi la maschera, scrivendo due libri duri, senza trucchi né sconti, in cui ha raccontato il rapporto intenso e doloroso con la madre depressa e poi malata di Alzheimer; e rivelando, tra l’altro, gli abusi sessuali subiti da parte di un certo don Angelo quando era adolescente e studiava in collegio.
A Taormina sognando la Grecia
Terminata la passeggiata al corso, Diego Dalla Palma si ritira nel suo palazzotto, un ex albergo ai piedi della collinetta del Teatro greco, che domina un panorama spettacolare, l’isola Bella, la costa messinese e la punta finale della Calabria. La nuova dimora arredata con ricchezza di gusto (oltre che di oggetti) nel segno del bianco, ha un ultimo piano non accessibile agli amici che spesso affollano il resto della casa. E qui nel silenzio, avvolto da uno scenario abbacinato dal sole, Diego finalmente pronuncia la parola bellezza.
«Mi piace pensare – dice fissando l’orizzonte sul mare – che al di là c’è la mia amata Grecia, il luogo dove vorrei approdare con la mia anima. Io ho sempre perseguito una bellezza concettuale, la Grecia per me è eroismo ed armonia insieme». Non per niente una delle stanze l’ha chiamata «verso Atene». Ma allora perché ha scelto la Sicilia? Stavolta le suggestioni poetiche devono conciliarsi con le ragioni prosaiche: «Qui c’è un calore umano impagabile, sono lontano dalle frenesie di Milano dove cerco di andare solo una volta ogni venti giorni e inoltre a Catania ho alcuni medici di primordine. Comincio ad avere un’età in cui anche questo è importante».
Naturale, per lui, che chi si occupa di bellezza abbia sempre in mente il declino e la morte. «Pur essendo ancora affamato di vita, di conoscenze e di esperienze, a volte rischiando in un modo pasoliniano, metto anche la morte nel bagaglio delle mie curiosità. Spesso passeggio su uno spuntone di montagna di fronte a Taormina, dove si trova il castello normanno di Forza d’Agrò, sin dall’800 diventato un cimitero. Un posto incredibile, le lapidi disordinate in altezza e disposizione: una città dei defunti molto viva. Mi attrae terribilmente. E, appena posso, torno a Làmbara. Da solo a lungo nel bosco, piango di commozione: la natura mi dà le risposte che mi avvicinano alla fine».
É sempre andato controcorrente, Diego. «Un’indole che mi viene dalla madre contadina, per me come una gitana, incoscientemente libera anche se legata a una serie di luoghi comuni. Ma credo anche che io debba molto alla mia rinascita dopo il coma in cui restai per giorni quando avevo sei anni a causa di una meningite linfocidea. Mi diedero per spacciato, al risveglio capii che avrei avuto un’esistenza particolare». Gli studi a Vicenza, poi l’avventura di Milano, cominciata come scenografo e costumista e presto approdata alla cosmetica. «Aprii il Make up Studio a Brera e misi nel negozio alcuni prodotti definiti strani. Mi giudicarono un poveretto che avrebbe chiuso nel giro di pochi mesi. E invece ero all’avanguardia. Mi regolo sempre così: mi indicano una tendenza, vado nella direzione opposta».
L’errore del sì all’America
Dopo la celebrazione del New York Times, disse sì all’America. «Bloomingdale’s mi aveva scelto come marchio di cosmetica che rappresentasse l’Italia. Ero molto ambizioso ed ingenuo. Dopo mi resi conto di aver fatto un errore gravissimo: persi la libertà creativa, ossessionato dai fatturati da garantire agli investitori. Da tempo ho ceduto il marchio Diego Dalla Palma per la cosmetica, lo posseggo solo per la linea degli accessori e per altre attività». Libero dunque, Diego, di fare il look maker. «Per migliorare l’immagine, devo cercare di capire prima di tutto la persona. Quante donne belle ho visto che trasmettono abbrutimento! La bellezza è innanzitutto personalità. Che il trucco deve evidenziare, dando più sicurezza. Niente ombretto per mimetizzare un tormento interiore ma al contrario un trucco nero che lo evidenzi. E poi il rossetto: con un tocco il sorriso apre l’anima. Il rosso è il mio colore preferito insieme con il bianco, spirituale, e il nero che rende drammatica ogni corporatura. I tre colori della tragedia greca».
Perché conta la «luccicanza»
Con il suo pubblico di Retequattro, Diego ama usare la parola luccicanza. «La sentii per la prima volta dalla mia amica Anna Mazzamauro. Da giovane, mi disse, aveva sempre il coltello tra i denti per difendersi dallo scherno sul suo aspetto. E così ha conquistato la luccicanza. Ho sempre trovato bellissime donne come Irene Papas, Anna Magnani, Amalia Rodrigues che non hanno mai cercato risposte allo specchio ma risposte alla vita».
La bellezza, insomma, è una cosa seria. E Dalla Palma lo dice come prima cosa ai 50 ragazzi che seleziona ogni anno per l’Accademia Bsi (Beauty Style Image), fondata a Milano. «Non si può imparare soltanto il trucco, oggi è importante conoscere perfettamente i prodotti e il marketing cosmetico, la comunicazione. Ma quello che manca sempre di più è un sostrato culturale: davvero sconfortante. Come si fa a non sapere chi era Estee Lauder, a non appassionarsi per la rivalità tra Elizabeth Arden e Helena Rubinstein, a non incuriosirsi della vita avventurosa di Olga Tchekowa? Donne straordinarie per senso estetico, fiuto imprenditoriale, determinazione inflessibile. Gli ombretti, credetemi, sono l’ultima cosa».