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 2015  marzo 13 Venerdì calendario

Matilde, tutto da rifare. A dieci anni dalla morte della bambina di 23 mesi, resta ancora da stabilire chi uccise la piccola sferrando il colpo mortale. La Cassazione riapre il caso

Sulla tomba del cimitero di Busto Arsizio c’è la stessa foto che da dieci anni rimbalza su giornali, televisioni e rotocalchi. Una bambina che sorride felice, a bocca aperta, con i denti da latte in bella evidenza. 
Il tempo di Matilda Borin si è fermato il 2 luglio 2005, serata afosa, una telefonata al 118 che parte dalla villetta di Roasio, duemila abitanti, un comune sparso ai bordi della provincia di Vercelli. A casa sono in tre. Elena Romani, la mamma, hostess di Alitalia. Il suo nuovo compagno, Antonio Cangialosi, un vigilante conosciuto pochi mesi prima in un centro commerciale. E Matilda, che ci mette poco a morire. Qualcuno le ha dato un calcio, comunque un colpo dalle conseguenze devastanti. Il referto medico racconterà di «frattura della costa, recisione del rene, spappolamento del fegato e scapsulamento dei due organi causato dalla violenza dell’impatto». Aveva 23 mesi. 
La sua morte e la vicenda giudiziaria che ne è seguita hanno di rado oltrepassato i confini delle pagine interne dei giornali. La data, e i tempi, sono importanti. C’è sempre spazio per una sola ossessione. A quel tempo l’Italia era prigioniera del delitto di Cogne, di Annamaria Franzoni e delle sue apparizioni mediatiche che in attesa del processo di secondo grado, sarebbe cominciato nell’autunno seguente, raccoglievano ascolti e confortavano tirature. Eravamo un popolo di commissari tecnici esperti anche del complesso di Medea, di madri che uccidono i figli. 
Anche oggi che la Corte di cassazione ha per l’ennesima volta riaperto il caso annullando l’ultimo verdetto del giudice di Vercelli che scagionava Cangialosi lasciando senza colpevoli la tragedia di Matilda, viene difficile guardare indietro senza pensare a quell’altra storia, più famosa. Non c’è articolo di questi dieci anni che parli di quanto accaduto nella villetta di Roasio e dei surreali sviluppi che ne seguirono senza citare Cogne, quasi a rinforzare una vicenda che senza l’illustre precedente avrebbe fatto più fatica a farsi spazio. Le suggestioni esistono, e non solo i giornalisti ne sono preda. 
Quando le indagini cominciano male, o prendono una piega sbagliata, finiscono peggio. Senza giustizia, senza verità. L’eterna morte di Matilda, protratta in un decennio di tribunali e udienze sempre illustrate da quel sorriso, non ha certo acquisito il fascino morboso dei grandi gialli, ma solo quello molto più prosaico delle saghe giudiziarie segnate da errori a catena, che conducono al nulla odierno. Elena Romani viene fermata dodici giorni dopo la morte di sua figlia. L’elemento decisivo della svolta è la perizia medico-legale che si basa sui tempi, i minuti intercorsi tra il trauma e la morte, e sulla «esperienza personale» dell’esperto nominato dalla Procura. Il Tribunale del Riesame conferma l’arresto descrivendo una donna «callida e fredda» al punto da essere riuscita anche a praticare un massaggio cardiaco alla figlia esanime. La posizione di Cangialosi, indagato come atto dovuto, diventa una formalità. Nella richiesta di archiviazione viene citata «una questione di pura logica». Se è stata lei, non può essere stato lui, semplice. Il giudice chiede di approfondire, i magistrati ribadiscono il non luogo a procedere, la Cassazione conferma che sono nel giusto. 
Si spengono le luci. Un’altra Medea di provincia. E invece siamo ancora qui a parlarne. Elena Romani viene assolta in primo grado e pure in appello. Le motivazioni del secondo processo, che si chiude nel dicembre 2010, sono al tempo stesso una sentenza di assoluzione per la madre e di colpevolezza neppure troppo presunta per il suo compagno. «Cangialosi ha commesso un delitto insensato e feroce solo perché non è stato capace di comprendere che si trovava di fronte a una bambina nervosa e delicata. Le indagini hanno privilegiato con fiduciosa convinzione soltanto l’ipotesi che fosse stata proprio la madre, mentre si sono mostrate quasi indifferenti a valutare gli elementi di segno diverso che potevano invece scagionarla e hanno tralasciato di accertare con uguale impegno se, per contro, gli elementi di prova raccolti potevano suggerire che autore dell’omicidio era stato, piuttosto, il Cangialosi». L’autore di queste parole è il giudice Alberto Oggè, che pochi mesi dopo condannerà proprio Annamaria Franzoni. 
Da allora l’inchiesta sulla morte di Matilda ha assunto tinte surreali. Nessun colpevole, anzi due colpevoli. La Procura generale di Torino ricorre in Cassazione per tentare di mettere nuovamente sotto accusa la madre, mentre la Procura di Vercelli è costretta a riaprire le indagini su Cangialosi. Le premesse sono chiare come il nulla di fatto che ne scaturisce. Nel 2013 l’unica a fare opposizione alla nuova archiviazione decisa per Cangialosi è proprio la sua ormai ex fidanzata, definitivamente assolta e parte civile nel procedimento. 
Elena Romani si è rifatta una vita, ha un nuovo marito, due figli. La causa intentata allo Stato per i mesi di ingiusta detenzione è in corso. «Un fatto di inaudita semplicità», dice il suo avvocato Tiberio Massironi, dopo aver esordito con il classico «non era certo Cogne». Bastava mandarli a processo tutti e due, aggiunge. Antonio Cangialosi vive a Palermo, dove fa l’autotrasportatore. La Cassazione ha fatto rimandare gli atti che lo riguardano a Vercelli, ma è difficile che l’esito possa essere diverso da quelli che l’hanno preceduto. Le cose non sono mai semplici come appaiono. Con Matilda c’erano due persone, le loro coscienze, e nessuna prova. Povera bambina.