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 2015  marzo 13 Venerdì calendario

La Scozia dopo il no alla secessione ci ripensa: per i sondaggi il 60% della popolazione sostiene ancora lo Scottish National Party. Tra promesse di nuove autonomie e le prossime elezioni. Ma va ricordato che Salmond è stato fortunato perché l’indipendeza del Paese avrebbe dovuto reggersi sui proventi dai giacimenti del mare del Nord e il crollo dei prezzi del petrolio avrebbe reso il suo manifesto ancor meno realizzabile

A prima vista, l’atmosfera di Edimburgo non è molto diversa. Si vedono più bandiere con la croce di Sant’Andrea, ma sulla sommità del castello sventola tranquillamente lo Union Jack. Il referendum per l’indipendenza ha dato un risultato chiaro e la Scozia, a dispetto dei nazionalisti dello SNP (Scottish National Party) di Alex Salmond, continua a far parte del Regno Unito. Eppure molto è cambiato dopo questo voto, e molto è ancora destinato a cambiare. 
Fiona Hyslop, «ministro degli Esteri» di un governo scozzese che non dovrebbe fare politica estera, non ha esitazioni quando afferma che il consenso per lo SNP ha superato il sessanta per cento e continua a crescere. Il vuoto lasciato dal suicidio politico dei laburisti che, appiattendosi sulla linea del no dettata da Londra, sono riusciti a perdere persino nella roccaforte storica di Glasgow, ha dato una ulteriore spinta al movimento per l’indipendenza, che rappresenta ormai l’unica proposta politica a un tempo sostenibile e condivisa. Perdonare un po’ di iperbole a chi senta di avere il vento in poppa è normale, e nel ragionamento ci sono diversi elementi di verità. 
Nel voto per lo SNP la componente di protesta c’è stata – se ne dichiara convinto Lord McNally, uno dei pochi liberaldemocratici scozzesi rimasti – ma non in misura particolarmente rilevante. Il vero motore – chiosa il Direttore de The Scotsman, Ian Stewart – è stato soprattutto la parola «Margaret Thatcher». La rivoluzione liberista imposta dalla Lady di Ferro è stata sempre vista da un’opinione pubblica scozzese saldamente socialdemocratica come un’imposizione, resa ancor più intollerabile dall’elisione politica dei tories nella regione, che ha privato Edimburgo della possibilità di influire anche in minima parte sulle scelte della ininterrotta serie di governi conservatori succedutisi a Londra. Votare sì per il referendum ha significato per molti ribellarsi alla tirannide della Londra tory: che poi questo avvenisse grazie a una maggiore autonomia piuttosto che una vera indipendenza, era un aspetto meno importante. 
David Cameron ha commesso un errore imperdonabile quando, convinto della possibilità di vincere con un ampio margine, ha optato per un quesito referendario secco anziché includere – come proposto originariamente dallo stesso SNP – l’alternativa di una maggiore autonomia amministrativa. Se lo avesse fatto, la partita non avrebbe avuto storia: invece ha rischiato di perdere. Alex Salmond ha condotto una campagna di grande intelligenza ed è stato fortunato. Il bilancio della Scozia indipendente avrebbe dovuto reggersi sui proventi dai giacimenti del mare del Nord e se il referendum, anziché pochi giorni prima si fosse tenuto dopo il crollo dei prezzi del petrolio, le promesse del suo manifesto elettorale sarebbero apparse meno credibili e l’esito del voto diverso. Ciò detto, se lo SNP ha perso la tornata referendaria ha di sicuro vinto una battaglia politica e potrebbe alla lunga vincere la partita, perché il tema dell’indipendenza è entrato a far parte stabilmente del quadro politico scozzese. 
La promessa di ulteriori autonomie – la cosiddetta devo-max – fatta da Cameron sull’onda dello scampato pericolo complica un quadro costituzionale già abbastanza confuso. A partire dalla cosiddetta West Lothian question, che si riferisce al fatto che i parlamentari eletti in Scozia al Parlamento di Westminster possono votare su tutte le questioni afferenti l’Inghilterra, mentre quelli inglesi non possono farlo su quelle per cui la potestà legislativa è stata delegata al Parlamento scozzese. Prima della devolution il problema praticamente non si poneva, ma è tornato alla ribalta a seguito dell’attribuzione al Parlamento di Edimburgo di sempre maggiori poteri in materia fiscale. L’esempio citato è quello di un Parlamento scozzese che deliberi l’introduzione di una aliquota massima sul reddito del 40% e, allo stesso tempo, i parlamentari scozzesi votino a Westminster l’introduzione in Inghilterra di una aliquota al 50% o più, con evidenti effetti discriminatori. 
L’adozione di un sistema federale con una chiara ripartizione di competenze fra Westminster – che diverrebbe il Parlamento federale – e le singole Assemblee regionali sarebbe in astratto logica, ma si scontrerebbe con la plurisecolare tradizione centralizzatrice della Corona britannica. C’è poi il fortissimo squilibrio fra le altre tre ipotetiche «regioni» e l’Inghilterra, la quale peserebbe fra l’85% e il 90% del tutto. Una Assemblea regionale inglese non solo avrebbe attribuzioni molto più ampie di tutte le altre, ma finirebbe di fatto per esautorare completamente il Parlamento di Westminster. Un assetto del genere sarebbe praticabile solo a condizione di suddividere in diverse regioni l’Inghilterra, dove non esistono gli elementi che hanno consentito a simili processi di funzionare altrove. 
Ammesso che una regionalizzazione fosse possibile – Philip Stephens, vicedirettore del Financial Times, ipotizza una Inghilterra suddivisa intorno alle città-regione di Londra, Birmingham e Manchester – essa produrrebbe l’ulteriore effetto di incoraggiare tendenze centrifughe in regioni dove erano modeste se non assenti, come il Galles e l’Ulster. Il problema potrebbe essere ulteriormente complicato dall’altro referendum all’orizzonte, sulla permanenza o meno in Europa del Regno Unito. Nel caso di un «Brexit», l’indipendenza della Scozia diventerebbe un fatto compiuto: qualsiasi ipotesi di divorzio «morbido» con Londra cadrebbe e la separazione potrebbe divenire conflittuale. Specie se da parte britannica si cercasse di contestare il diritto per uno Stato secessionista di presentare una autonoma domanda di adesione. 
Per ora si tratta di un pasticcio costituzionale annunciato. La Scozia potrebbe accettare una autonomia che ricalchi il modello del Québec canadese, rinviando a un futuro più lontano la piena sovranità. Nel referendum sul «Brexit» il voto antieuropeo potrebbe soccombere. Ma potrebbe andare diversamente e, in questo caso, il Regno Unito così come è stato per oltre trecento anni cesserebbe di esistere. Senza la Scozia non vi sarà un Regno Unito, ma senza un assetto federale quanto potrà resistere la Scozia? 
Peter Kellner, guardando alle proiezioni di YouGov, la vede indipendente entro vent’anni. La baronessa Joyce Quin, ex ministro laburista per l’Europa eletta in collegi al confine fra Scozia e Inghilterra, afferma che la storia comune e una rete fittissima di legami economici e familiari finiranno per far prevalere l’unità: alla fine potrebbe avere ragione lei. Resta che l’«eccezionalità» scozzese avrebbe meritato ben altra attenzione. Il governo ha prima peccato di supponenza e poi è finito preda dell’affanno, mentre una idea politicamente sensata di autonomia avrebbe potuto togliere di mezzo il problema per almeno un altro decennio.