la Repubblica, 13 marzo 2015
Alexander McQueen, l’enfant terrible della moda che sbanca anche nei musei. La mostra sullo stilista inaugurata oggi a Londra, Savage Beauty, è un percorso teatrale attraverso creazioni geniali e fantasmi
Non è mai stato solo fashion. E il marchio, alla fine, è il nodo che gli si è stretto al collo, ben più minaccioso di quel teschio che scelse come sigillo della griffe. Non pensi ai défilé, alle top model, al glamour mentre vaghi per i saloni sontuosi in cui il Victoria & Albert Museum di Londra ha allestito Alexander McQueen: Savage Beauty, la mostra sull’enfant terrible della moda aperta ai visitatori da oggi fino al 2 agosto – versione arricchita e meglio sceneggiata dell’evento che ha già attirato 650 mila visitatori al Metropolitan di New York. Non pensi alle collezioni, alle tendenze, al frenetico alternarsi di autunni/inverni e primavere/estati che costringono gli stilisti a forzati, estenuanti e spesso insensati turn over. Non riesci neanche a pensare al lavoro di migliaia di mani che tagliano e cuciono e infilano swarovski e sagomano pelli e assemblano piume per dar vita a un immaginario che ha più a che fare col palcoscenico che con la passerella. Savage Beauty è tutto tranne che una serie di abiti infilati in manichini condannati a raccontarsi, muti e solitari, a nostalgiche fashion victim che già ne conoscono i segreti. È invece il percorso di uno stilista spericolato, mai lusingato dal successo, mai compiaciuto, compulsivamente concentrato sulla performance, un vizio che di solito uccide artisti come Heath Ledger o Philip Seymour Hoffman più che i couturier. Alexander Mc-Queen sì è suicidato a quarant’anni. L’ha trovato la sua domestica l’11 febbraio del 2010, impiccato nel suo appartamento di Green Street; nove giorni dopo che l’adorata madre era morta di cancro. Il biglietto che ha lasciato non racconta altro che solitudine: «Occupatevi dei miei cani, mi dispiace, vi amo». Ora una biografia scritta da Andrew Wilson e pubblicata di fresco da Simon and Schuster, Alexander McQueen: Blood Beneath the Skin, svela che lo stilista aveva architettato un piano per togliersi la vita in quello che sarebbe stato l’ultimo défilé.
Il sancta sactorum della mostra, una stanza nera con al centro una piramide trasparente, ripropone il clou del più iconico dei fashion show di McQueen, The widows of Culloden (2006): un fantasma (Kate Moss) si libra all’interno del cristallo in un candido, leggerissimo vestito di organza; vola in alto, diventa un punto di luce che, pura energia, si disintegra nell’universo. C’è più silenzio che a una veglia lì dentro; solo un’anziana, bizzarra lady inglese che tanto ricorda Anna Piaggi, ha il coraggio di mormorare, indicando quel punto: «È lui! È lui!». Quella del- l’aldilà era diventata un’ossessione per McQueen, il tema della collezione che non avrebbe mai terminato, ma anche il senso di Savage Beauty che, forte di un sapiente corredo multimediale, accompagna il visitatore dalla luce (le prime collezioni ispirate alla street life londinese, l’exploit da Givenchy) dentro le tenebre dove la donna, complice la creativa follia dell’amico cappellaio Philip Treacy, diventa creatura gotica e mitologica. «Sono un romantico schizofrenico», diceva McQueen, «voglio che la gente abbia paura delle donne che vesto». Si resta intimiditi da certe calzature prepotentemente ispirate agli zoccoli equini o alle porcellane di Sèvres, dai crocifissi e dalle corone di spine, dalle deformazioni grotesque, dai mille strati di seta tagliata a vivo che trasformano il corpo umano in creatura esotica e misteriosa. Organizzata negli stessi spazi dove l’anno scorso il V&A ospitò la retrospettiva dedicata a David Bowie, Savage Beauty ne segue in qualche modo l’andamento. Lì erano le canzoni che dagli anni Sessanta ai Novanta diventavano più oscure e tenebrose; qui sono gli abiti a suggerire i tormenti dello stilista che dal lavoro artigianale pretende perfezione, di più, arte. Lì i maxischermi rimandavano immagini di concerti storici, qui sfilate teatrali di collezioni cult sottolineate dalle musiche di Haendel o dalla colonna sonora di Rosemary’s Baby. «Devi conoscere le regole per poterle infrangere», diceva. «Sono qui per questo: per demolire e portare avanti la tradizione. C’è chi trova i miei capi aggressivi, ma io non penso lo siano. Io li vedo romantici, ma ispirati dal lato oscuro della personalità. Qualcosa alla Edgar Allan Poe, al contempo profondo e malinconico». Tra gli stilisti, solo Yves Saint-Laurent, come recentemente ben raccontato in due fiction e un documentario, è stato preda dello stesso martirio esistenziale e del medesimo furore creativo. Stessi eccessi, stessa fragilità, stesso sconfinato, ossessivo amore per la cultura e la bellezza. A McQueen, per arrivare a settant’anni, è mancato un compagno, come Pierre Bergé per Saint-Laurent.