Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  marzo 13 Venerdì calendario

Caporetto, la disfatta italiana. Inefficienza, retorica, disunione, irresponsabilità della classe dirigente: retaggi da cui non siamo mai riusciti a liberarci, e che in quei giorni del 1917 si sono rivelati con paurosa evidenza

Nella Grande Guerra l’Italia ha compiuto uno sforzo organizzativo, industriale e umano sbalorditivo per un Paese così debole. Eppure nel mondo si ricorda un solo episodio della nostra guerra, il cui nome è diventato sinonimo non di sconfitta, ma di disfatta vergognosa e umiliante: Caporetto. È doloroso, e anche ingiusto, ma non possiamo incolparne gli altri, perché davvero a Caporetto furono vanificati anni di sacrifici e apparve la faccia peggiore dell’Italia. 

La colpa di Cadorna
Inefficienza, retorica, disunione, irresponsabilità della classe dirigente: retaggi da cui non siamo mai riusciti a liberarci, e che in quei giorni del 1917 si sono rivelati con paurosa evidenza.
Cominciamo col dire che, se nel mondo tutti ricordano Caporetto come il posto dove gli italiani sono scappati, la colpa è del nostro Comando Supremo: del rovinoso bollettino in cui Cadorna denunciava «la mancata resistenza di reparti della Seconda Armata, vilmente ritiratisi senza combattere e ignominiosamente arresisi al nemico». Il governo si accorse della follia di quel bollettino e ne bloccò la pubblicazione; ma troppo tardi, perché le copie per l’estero erano già partite. 
Cadorna era un uomo di grandissime qualità: eppure credeva davvero che i suoi soldati fossero scappati. Come poteva non crederci? Lui stesso alla vigilia dell’offensiva nemica aveva dichiarato che non c’era da aver paura: «Vengano pure! Li prenderemo prigionieri e io li manderò a passeggiare a Milano per farli vedere!». Cadorna era pronto; aveva persino informato i giornalisti che l’offensiva nemica, di cui si conosceva in anticipo ogni particolare, si sarebbe infranta contro le «imponenti» misure difensive da lui previste. E dunque, non c’era che una spiegazione al disastro: il nemico aveva sfondato perché i soldati non si battevano, perché la Seconda Armata minata dalla propaganda socialista aveva vigliaccamente gettato le armi e tradito il Paese.
Gli studi degli ultimi anni hanno fatto giustizia di questa leggenda. L’enorme lavoro di Paolo Gaspari sui memoriali degli ufficiali fatti prigionieri a Caporetto ha dimostrato che le truppe in prima linea combatterono dappertutto, e quasi sempre bene. Ma all’epoca furono in molti a crederci. Il 22 dicembre 1917 un prigioniero che si trovava a Mauthausen fin dall’anno precedente scrisse a casa raccontando che erano arrivati i prigionieri catturati a Caporetto. La lettera è piena di insulti «contro questa maledettissima Seconda Armata, che ha abbandonate le armi», ma lascia anche capire che fra gli uomini rimasti presi nella catastrofe l’idea del «tanto peggio tanto meglio» era affiorata eccome. «Bisogna vedere con quale spudoratezza si erano presentati qui i primi giorni. Vi abbiamo portato la pace, dicevano. Speriamo che i tedeschi arrivino a Milano ed anche a Roma!!!». 

«È finita la camorra!»
Perché il fatto è che le brigate in prima linea si batterono bene; ma nella ritirata ordinata da Cadorna l’intero esercito fu sul punto di sfasciarsi, e si sfiorò l’otto settembre con 26 anni di anticipo. Le testimonianze su quello che si sentiva dire tra la folla degli sbandati in ritirata da Caporetto e tra le mandrie dei prigionieri avviati verso i Lager sono rivelatrici di un Paese dalla schiena fragile. Un tenente lombardo grida: «Adesso me ne vado a casa: sono stufo di battermi per i Veneti!». Una parola d’ordine diffusa, «È finita la camorra!», traduce l’amara soddisfazione per il collasso di un esercito di cui troppi hanno sperimentato soprattutto l’inefficienza, la corruzione, i favoritismi, il classismo. La stessa amara soddisfazione circola nel Paese, fra chi si dice che almeno è finita la follia della guerra; come in quella lettera spedita da Barletta a un soldato prigioniero, che lo rassicura con la notizia di Caporetto: «Dunque state tranquilli che la vittoria è di Austria il nostro Re perde».

«50 anni di bastone»
Non meno rivelatrice delle condizioni del Paese è l’ammirazione generalizzata dei giovani ufficiali per i tedeschi, efficienti, pratici, che fanno tutto bene, come non si fa in Italia. Dai tedeschi ogni sottufficiale è un professionista, munito di ottime carte topografiche: «Da noi neanche gli ufficiali avevano la carta», commenta amaro un testimone. Qualcuno, come Carlo Emilio Gadda, sottotenente degli alpini, anche lui prigioniero a Caporetto, pensava che l’italica arretratezza fosse colpa soprattutto dei capi, a partire dal disgraziato generale Cavaciocchi, comandante del IV corpo annientato fra Plezzo e Tolmino: «I tedeschi hanno evidentemente dei generali meno Cavaciocchi dei nostri», commentava ferocemente Gadda. 
Ma altri pensavano che la colpa fosse piuttosto del popolo, e che quel popolo avesse bisogno di essere raddrizzato col pugno di ferro. Il pittore Ottone Rosai, futuro squadrista, s’infuriava per i troppi soldati che marcavano visita con qualunque pretesto, e annotava nel suo diario: «Il medico di battaglione deve riceverne tutte le mattine delle frotte, ma l’ordine è di non riconoscere in loro alcun male, e l’olio di ricino e il bastone han trovato lavoro». Era il 1917, ma il futuro si stava già materializzando. Anche la lettera da Mauthausen che abbiamo citato anticipa senza saperlo discorsi che di lì a poco diventeranno attualissimi: «È doloroso ma purtroppo noi siamo un popolo che abbiamo bisogno di 50 anni di bastone!». Ricacciati indietro per un istante dalla botta d’orgoglio ferito con cui l’esercito e il Paese reagirono alla disfatta, tacitati in apparenza dalla resistenza sul Piave e dalla riscossa di Vittorio Veneto, questi umori traboccheranno di nuovo nel dopoguerra della disoccupazione e della vittoria mutilata.