la Repubblica, 13 marzo 2015
Hanno ragione Avvenire e Cei: peccato e reato non sono la stessa cosa, e dunque — dicono in sostanza i vescovi — Berlusconi non gongoli più di tanto. Ma il problema di questo Paese è che la moralità quasi non ha peso nella vita pubblica, nelle fortune politiche. Valesse qualcosa, il giudizio morale, Berlusconi non sarebbe stato votato da milioni di bravi cattolici
Hanno ragione l’Avvenire e la Cei, non c’è coincidenza tra assoluzione giudiziaria e giudizio morale. Peccato e reato non sono la stessa cosa, e dunque – dicono in sostanza i vescovi – Berlusconi non gongoli più di tanto. Ma il problema (uno dei tanti) di questo Paese è che la moralità (anche nella sua forma più banale, che è il senso della misura) quasi non ha peso nella vita pubblica, nelle fortune politiche, nelle scelte elettorali. Valesse qualcosa, il giudizio morale, Berlusconi non sarebbe stato votato da milioni di bravi cattolici. L’abnorme quantità di processi “politici”, da Tangentopoli in poi, è anche conseguenza del mancato vaglio che, in una comunità sana, seleziona in modo un po’ meno lasco la classe dirigente. È come se la magistratura si fosse sentita costretta a mettere le mani in una matassa che altri avrebbero dovuto sbrogliare, e ben prima di arrivare davanti a una toga. Con tutte le conseguenti storture e goffaggini, e l’impressione, non del tutto infondata, che sotto inchiesta siano finiti non solamente i reati, ma anche i peccati. Che non sono, come è noto, competenza della magistratura. Il ricorso alle carte bollate, nel nostro Paese, è direttamente proporzionale alla paurosa incapacità della società di autoregolamentarsi. Siano reati, siano peccati, sono troppi i cittadini che se ne lavano le mani.