la Repubblica, 13 marzo 2015
Elezioni in Israele: ora Benjamin Netanyahu teme la disfatta. E la sinistra torna a sognare la vittoria. Tra quattro giorni il paese è chiamato al voto. Il premier del Likud ha scommesso tutto sulla sfida a Obama contro il negoziato con l’Iran. Ma Herzog e la Livni alleati sotto la bandiera dell’Unione sionista guadagnano consensi puntando sui problemi sociali. E nessuno parla del conflitto con i palestinesi
Per farsi rieleggere dagli israeliani, Benjamin Netanyahu ha sfidato il presidente americano. Fantasia e audacia non sono mai mancate al primo ministro. Usando quei forti lati del suo carattere, ai quali deve gran parte del lungo potere, adesso ha dato un’impronta internazionale al voto nazionale di martedì prossimo. L’idea non tanto occultata era di ridurre l’elezione a un referendum sulla propria persona. Il successo non poteva mancare al garante della sicurezza, pronto a far fronte all’alleato americano tratto in inganno dagli ayatollah di Teheran, occupati nelle intenebrate centrali nucleari a preparare una minaccia “esistenziale” contro Israele. Ma, a quattro giorni dall’appuntamento, il terzo mandato come primo ministro appare molto più incerto per Benjamin Netanyahu. Gli oppositori si stanno rivelando assai meno insignificanti di quel che pensasse. Al centrosinistra, giudicato tanto innocuo, gli ultimi pronostici assegnano più seggi alla Knesset, il Parlamento, di quelli attribuiti al Likud. Nelle sedi del grande partito di destra si avverte un certo smarrimento. L’euforia tradizionale si è smorzata. Anche se poi ci si affida alla scarsa credibilità delle inchieste d’opinione per ritrovare un po’ di ottimismo. In effetti sbagliano spesso. Se il suo partito perde terreno, personalmente Netanyahu resta comunque il leader che raccoglie più consensi, per ora virtuali.
Nel progettare la campagna elettorale, Barack Obama è apparso a Netanyahu il solo vero avversario da sfidare. E se l’è costruito su misura: un avversario estraneo alla prova elettorale, ma ben presente nell’essenziale problema della sicurezza di Israele. Gli avversari locali, almeno in un primo tempo, non gli sono sembrati degni di un’attenzione esclusiva. Il laburista Isaac Herzog, capo della principale coalizione nemica, dava l’impressione di non voler esibire il nome del proprio partito troppo impopolare. Per questo lo si descriveva nascosto dietro una vaga Unione sionista, sigla patriottica e mimetica creata per l’occasione.
Herzog? Un cognome prestigioso. Nipote di un grande rabbino. Figlio di un presidente della Repubblica. Nipote di un famoso ministro degli Esteri, Abba Eban. Ma un personaggio di 54 anni senza carisma: l’aria di un secchione, la voce chioccia, la faccia di un ragazzo, pessimo oratore. Un fastidio, non un pericolo.
Nella scelta del vistoso antagonista fuori competizione deve avere pesato il fatto che l’attuale inquilino della Casa Bianca non susciti molte simpatie nello Stato ebraico, benché egli sia il capo della grande nazione alleata e protettrice di Israele. Un personaggio potente conferisce prestigio a chi osa affrontarlo. È un rischio, ma consente di evadere dall’insidiosa area della politica interna. Di abbattere i confini di una campagna elettorale che dà risalto a scandali e insuccessi economici.
Ma oltre alla fantasia e all’audacia, Benjamin Netanyahu ha anche il senso del dramma, ha la capacità di scavare nei profondi sentimenti dei connazionali, tra i quali occupa uno spazio particolare il problema della sicurezza, motivato dalla storia e dall’agitato presente mediorientale. E ha quindi enfatizzato la minaccia esterna, che rende appunto trascurabili i fastidiosi fatti interni dei quali deve rispondere come primo ministro durante due mandati. In tutto per nove anni.
La grande minaccia è l’Iran, che preparerebbe l’arma nucleare. Barack Obama, l’ingenuo, vale a dire l’incapace, crede nella sincerità degli Ayatollah che auspicano puntualmente la distruzione di Israele, e si prepara a concludere un accordo con Teheran prima della fine del mese. Un’intesa che impegnerebbe l’Iran a limitarsi al nucleare per uso civile, ma che già da adesso, prima di essere raggiunta, non va presa sul serio vista l’inaffidabilità dei discepoli di Khomeini. Grazie all’invito dei repubblicani, maggioritari nel Congresso e decisi oppositori del presidente, Netanyahu ha potuto esprimersi a Washington, con l’azzardata convinzione che si trattasse di una lite in famiglia, e non di un rischio per il privilegiato ed essenziale rapporto tra Stati Uniti e Israele. E ha detto in sostanza che Barack Obama è appunto un ingenuo, o un incapace. Aggettivi che ovviamente si è ben guardato dal pronunciare. Anzi, nella forma è stato cauto. Bastava la sua presenza, ufficialmente sgradita dalla Casa bianca, e il tono del suo discorso, in aperta opposizione alla politica del presidente, per rendere chiara la sfida.
Per la sua storia e la sua posizione, Israele attira un’attenzione spropositata rispetto alle sue dimensioni. Un’attenzione con aspetti che vanno dalla geopolitica alla morale. Dalla solidarietà dovuta alla memoria alle ondeggianti passioni sollecitate dagli avvenimenti. Ne sono la prova i riconoscimenti simbolici dello Stato palestinese votati da democrazie occidentali, con la premessa che debba essere garantita l’incolumità e l’integrità dello Stato ebraico. Gli israeliani si lamentano di questi ossessivi sguardi puntati su di loro. Al tempo stesso, secondo i casi, capita che non siano tanto disturbati, se non proprio lusingati, da tanta premura.
L’elezione del 17 marzo non è esente da quei sentimenti, ma si distingue in parte per l’impronta internazionale che il primo ministro le ha dato. Oltre a rivelarci quel che più conta, cioè gli essenziali dati dello scrutinio riguardante gli undici partiti in gara, il risultato di martedì sera ci dirà se a spuntarla sia stato lo sfidante di Gerusalemme o lo sfidato di Washington. La sconfitta di Netanyahu sarà un successo (non gridato) di Obama. E in tal caso per quest’ultimo risulterà meno tormentato arrivare, entro fine mese, a un accordo con l’Iran sul problema nucleare. Vale a dire alla conclusione di una delle più difficili e lunghe trattative nella storia della diplomazia. E quindi a una delle più rilevanti imprese finora portate a termine da Obama nei suoi due mandati. E non sono tante.
Non trascurabili saranno le conseguenze in Medio Oriente dove la coalizione organizzata dagli americani cerca a stento di contenere l’espansione dello Stato islamico in Siria e in Iraq. E dove le milizie sciite comandate da generali iraniani hanno un ruolo decisivo, come truppe di terra, con l’appoggio inevitabile (anche se non ufficiale) dell’aviazione americana e quella dei reticenti alleati sunniti. Netanyahu, come del resto l’Arabia saudita, teme un recupero dell’Iran da parte degli Stati Uniti.
Non ha del tutto torto quando punta l’indice contro l’Iran degli ayatollah, da dove si alzano puntuali minacce contro lo Stato ebraico. Ma non propone un’alternativa seria al negoziato condotto dagli americani. Le sanzioni hanno dato scarsi risultati e sull’opportunità di un intervento militare avanzano seri dubbi generali e uomini dell’intelligence israeliani. Per loro la minaccia iraniana non è scontata e sarebbe comunque prevedibile e contenibile nel caso dovesse rivelarsi concreta.
E se vincesse Netanyahu? Se uscisse dalle urne per la terza volta capo del governo, sia pure un governo raffazzonato, di coalizione? Quando ha sciolto il Parlamento in anticipo era convinto di farcela. Adesso un po’ meno. Dopo qualche settimana di comizi e riunioni la voce di Isaac Herzog si è rafforzata. È meno acuta. Più incisiva. Lui si muove con agilità. Non come un intellettuale impacciato. C’è chi gli riconosce un certo carisma. Per alcuni ricorda Levi Eshkol, a lungo primo ministro negli agitati anni Sessanta: un personaggio evocato con grande rispetto anche per la sua semplicità un tempo scambiata per esitazione.
L’Unione sionista non appare più una formula dietro la quale il partito laburista nasconde l’impopolarità e la lunga decadenza. Ha via via assunto una fisionomia. Il richiamo al sionismo non è un ricorso al nazionalismo, ma un richiamo al carattere sociale del movimento, fino alla svolta liberista degli anni Settanta, quando arrivò al potere la corrente di destra (detta “riformista”). Insomma, dice il deputato Stav Shaffir, animatore delle rivendicazioni del 2011, il sionismo va inteso anche come formula sociale. Come una politica di sinistra contro la disuguaglianze, l’aumento dei prezzi, in particolare degli affitti, in favore delle classi colpite dalla crisi. La quale non ha risparmiato Israele, benché la disoccupazione sia bassa come quella tedesca.
Non è sotto l’ala dei repubblicani americani, sbandierando la minaccia iraniana al Congresso di Washington, che Benjamin Netanyahu può nascondere gli insuccessi economici dei suoi anni di governo. Negli Stati Uniti, appoggiandosi sull’opposizione a Barack Obama, il primo ministro mette soltanto a rischio l’alleanza con l’America. Questo dice l’Unione sionista. Adesso sempre più ascoltata. Nelle riunioni si ricorda che Netanyahu ha l’appoggio incondizionato di Sheldon Adelson, miliardario americano proprietario di casinò e finanziatore in patria delle campagne repubblicane. Adelson gli paga il giornale gratuito Israel Hayom, definito a Tel Aviv la “Pravda del primo ministro”. È anche per evitare una legge che avrebbe proibito la diffusione gratuita di Israel Hayom, al fine di non danneggiare la vendita degli altri quotidiani, che si sarebbe arrivati allo scioglimento anticipato della Knesset. Dopo cinque anni di paralisi del processo di pace nessuno parla del problema palestinese, né della sorte di Gerusalemme, né dei territori occupati, né si affronta sul serio il conflitto interno tra laici e religiosi. È con desolazione che un deputato laburista enumera i problemi essenziali trascurati anche dal suo partito. Che però ha un attenuante: non si dichiara contrario al processo di pace. E la presenza nell’Unione sionista della centrista Tzipi Livni, a lungo sfortunata animatrice del processo di pace, apre qualche timido spiraglio. Ma è singolare la posizione di alcuni palestinesi di Ramallah, i quali si augurano la vittoria della destra israeliana. E spiegano la loro posizione dicendo che almeno la destra al potere è criticata dai paesi occidentali, mentre la sinistra (ad eccezione di Meretz, a loro avviso rappresentante la sola vera sinistra), pur comportandosi allo stesso modo, riscuote simpatia.