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 2015  marzo 13 Venerdì calendario

Ecco perché la «buona scuola» di Renzi non passerà alla storia. È una riforma troppo rischiosa che andrà a scontrarsi con una realtà molto complessa. Per non deludere milioni di italiani che vorrebbero non più insegnanti, ma migliori insegnanti, ci vorrebbe più umiltà nella conoscenza delle situazioni e meno improvvisazione nei rimedi da proporre

Ci hanno provato in molti, tutti sognando di passare alla storia. Come l’unico riformatore della scuola che ci sia riuscito, Giovanni Gentile. I ministri della pubblica istruzione, così si chiamano con pedagogica retorica i titolari del dicastero che ha il compito più delicato, quello di preparare i nostri giovani ad affrontare il futuro, hanno lanciato parole d’ordine suggestive, promesso rivoluzioni epocali, ma, da decenni, nelle nostre aule si parla solo di precari, da assumere, e di stipendi, da elevare. Questa volta ci prova addirittura il capo del governo più decisionista dai tempi di Craxi, approfittando di una ministra, come bisogna dire adesso, alla quale non sembra riservare, a torto o a ragione, molto credito. Ma l’impressione è che nemmeno lui e nemmeno la sua «buona scuola» passeranno alla storia, perlomeno quella dell’istruzione pubblica nel nostro Paese.
Il motivo del pessimismo, speriamo eccessivo, questa volta è diverso, però, da quello che il passato consiglia, cioè il solito ostacolo delle burocrazie amministrative, delle corporazioni sindacali, delle clientele politiche alle buone intenzioni del riformatore di turno. Perché sono proprio le intenzioni, confuse e tese sostanzialmente a suscitare demagogicamente un consenso facile e immediato, a rischiare di scontrarsi con una realtà molto complessa.
Una realtà davanti alla quale ci vorrebbe più umiltà nella conoscenza delle situazioni e meno improvvisazione nei rimedi da proporre.

Sono proprio questi approcci sbagliati ad aver costretto Renzi a una serie di arretramenti significativi, sia sul metodo, dal decreto governativo al disegno di legge da proporre al Parlamento, sia sui contenuti più sbandierati dalle sue promesse, l’assunzione di tutti i precari e gli aumenti di merito per gli insegnanti.
Il mondo di coloro che non sono docenti di ruolo nella scuola non è assimilabile in una sola categoria, tutta meritevole di ottenere permanentemente una cattedra. Di più, ci sono migliaia di precari che, ormai, hanno trovato una occupazione fuori dalla scuola e che rimangono in quelle liste solo formalmente e senza possedere più un aggiornamento professionale e culturale adeguato. C’è, poi, un’obiezione più importante per la futura qualità dell’istruzione pubblica in Italia. Il nostro Paese ha e avrà bisogno soprattutto di insegnanti per le materie scientifiche, a cominciare dalla matematica, disciplina per la quale il confronto internazionale ci penalizza gravemente. Ma non è orientata così la grandissima maggioranza delle competenze di quei 150 mila precari ai quali Renzi ha promesso l’assunzione.
La rinuncia agli aumenti di merito, spostati in un tempo indefinito, con la conferma, invece, degli scatti d’anzianità, denuncia la presa d’atto di un problema valutativo difficile, che andrebbe esaminato con molta prudenza per evitare discriminazioni e ingiustizie tra insegnanti davvero inaccettabili. Il punto di partenza è sicuramente condivisibile, quello di promuovere il merito e l’impegno dei docenti e non solo la progressione dell’anzianità. Ma con quale criteri e a chi si può affidare la responsabilità di questi giudizi? Ieri sera il premier ha tirato poi fuori il coniglio dal cilindro: la possibilità che i presidi assumano i docenti che ritengono più adatti alla propria scuola. Principio dirompente, se fosse approvato dal Parlamento, nel sistema dell’istruzione superiore, e sicuramente condivisibile. Peccato che questa novità non sia mai stata annunciata né discussa precendentemente, confermando quindi un metodi di improvvisazione, anche positivo, che dovrebbe essere contemperato da una preventiva discussione più ampia e più meditata.
Il paragone con quanto si tenta di fare all’università, attraverso il lavoro svolto del nucleo di valutazione e con gli incentivi affidati alla scelta autonoma degli atenei, non è facilmente applicabile al mondo della scuola, sia per una maggiore uniformità dell’impegno orario degli insegnanti, sia per attività, come quelle della ricerca, che non sono previste, sia per altre caratteristiche troppo difformi. È giusto, forse, attribuire ai presidi maggiori poteri discrezionali, ma farlo diventare l’arbitro degli stipendi dei professori può avere conseguenze non proprio raccomandabili. Ecco perché le proposte suggerite per giudicare il merito dei docenti erano così cervellotiche, contraddittorie e irrealistiche che perfino lo sbrigativo Renzi ha dovuto ammettere la necessità di un più meditato periodo di riflessione.
Al di là degli aspetti più tecnici di una riforma molto difficile e che non ammette dilettantismi, professionali o politici che siano, il premier, nel momento in cui affronta due capitoli come quelli della scuola e della Rai deve essere consapevole di addentrarsi in un vero campo minato. Un campo dove le sue qualità decisionistiche, molto apprezzate da un’opinione pubblica stanca di un immobilismo ormai insopportabile e di una ostinata mentalità conservatrice e corporativa, possono trasformarsi in boomerang pericolosi per sé e per il suo governo. La retorica del cambiamento funziona come slogan elettorale e mediatico, perché coglie l’umore fondamentale dei cittadini. Quando si scontra con gli effetti concreti di riforme improvvisate e demagogiche rischia di deludere milioni di italiani che vorrebbero non più insegnanti, ma migliori insegnanti e una informazione televisiva che non esca dalle mani dei partiti per consegnarsi a quelle del governo.