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 2015  marzo 12 Giovedì calendario

Nonostante la frenata della produzione industriale in gennaio, la felice combinazione di fattori in gran parte esterni (il Qe, la quasi parità euro-dollaro, il crollo del prezzo del petrolio) continua a giocare a nostro favore. Gli indicatori macroeconomici registreranno un incremento del Pil nel 2015 dello 0,8%, contro lo 0,6% stimato a fine 2014

Nonostante la frenata della produzione industriale in gennaio, la felice combinazione di fattori in gran parte esterni (il Quantitative easing della Bce, la quasi parità tra euro e dollaro, il crollo del prezzo del petrolio) continua a giocare a nostro favore. Tanto che gli indicatori macroeconomici in via di revisione registreranno un incremento del Pil nel 2015 nei dintorni dello 0,8%, contro lo 0,6% stimato a fine 2014, e una spesa per interessi che evidenzia un incoraggiante risparmio di 2 miliardi. Continua pagina 2
In uno scenario di base decisamente più positivo rispetto a quanto era lecito prevedere non più di due o tre mesi fa, al ministero dell’Economia si stanno già sostanzialmente definendo le prime “griglie” di riferimento per il Def di metà aprile e per la prossima legge di stabilità. Obiettivo primario – lo ha confermato il ministro Pier Carlo Padoan – è disinnescare le clausole di salvaguardia che si tradurrebbero in un aumento della pressione fiscale per 16 miliardi nel 2016. Si fa conto sulla spending review, il cui obiettivo resta fissato a 32 miliardi nel triennio 2014-2016 (2 punti di Pil) e sul maggior risparmio sul versante degli interessi grazie al calo dello spread e all’ulteriore contrazione dei tassi spalmato sull’intera struttura e composizione del debito pubblico (si potrebbe raddoppiare il risultato del 2015).
Cifre alla mano, si può calcolare però fin d’ora che il simultaneo operare di tutte le variabili esogene nel corso dell’anno non aprirà spazi aggiuntivi di spesa. Perché occorre far fronte alle clausole di salvaguardia, appunto, e garantire che il deficit nominale si attesti quest’anno al 2,6% del Pil e all’1,8% nel 2016. Se la crescita del 2015 virerà più verso l’1%, così da ipotizzare un incremento almeno all’1,5% nel prossimo anno, non ci sarà bisogno di manovre correttive vecchia maniera. E qui entra in gioco l’altra partita che andrà affrontata nei prossimi mesi con Bruxelles. Dal 2016 la riduzione del deficit strutturale chiesta all’Italia tornerà ad attestarsi allo 0,5% del Pil, contro lo 0,25% previsto quest’anno. Poiché non potrà più scattare la clausola di flessibilità che opera in presenza delle «circostanze eccezionali» riconosciute quest’anno al nostro paese, occorrerà verificare con la Commissione europea se potranno scattare le altre due clausole di flessibilità previste dalle nuove linee guida applicate da Bruxelles: la clausola degli investimenti produttivi, da applicare sia alle risorse che confluiranno nel Fondo europeo, sia al cofinanziamento dei progetti di investimento nazionali; la clausola di flessibilità sulle riforme. A patto che queste ultime siano «completamente attuate», con effetti diretti positivi a lungo termine sui conti pubblici. È da questa trattativa che potranno scaturire margini aggiuntivi nel 2016, sia pur limitati a 2-3 miliardi. Se così stanno le cose, se ne desume che difficilmente potranno essere soddisfatte gran parte delle spinte (in primis da parte della maggioranza in Parlamento) per allentare i cordoni della borsa in occasione della prossima manovra di bilancio. La coperta resta corta, fermo restando che se si riuscisse anche attraverso l’impulso delle riforme a conseguire tassi di crescita più consistenti si amplierebbe il margine, in sostanza il dividendo da redistribuire soprattutto sotto forma del taglio delle tasse e del finanziamento delle riforme in itinere (la scuola ad esempio) che dal 2016 richiederà uno stanziamento di 3 miliardi.
Il “dividendo” che va emergendo va gestito dunque con prudenza e massima attenzione ai rischi. Lo ha ricordato ieri Padoan al Senato: il via libera dell’Unione europea ai conti italiani «non è un gentile regalo che viene fatto al Paese». La regola del debito «viene considerata soddisfatta per il 2015 ma non per sempre». Le incognite sono legate all’incerta evoluzione delle crisi greca e ucraina sul versante internazionale, ma anche al possibile rallentamento del percorso delle riforme, su quello interno. I mercati e gli investitori guardano alle prospettive di crescita di un paese, prima di tutto, e alla stabilità politica. Da questo punto di vista, le simultanee spinte disgregatrici negli schieramenti, le incerte e variabili maggioranze che stanno accompagnando l’iter delle riforme costituzionali (in attesa del rush finale sull’Italicum) non sembrano proprio un bel biglietto da visita. La coesione politica va collocata in cima all’elenco, quando si prova a stimare l’effetto delle riforme dal punto di vista dell’incremento del potenziale di crescita dell’economia. Al pari del risultato conseguito nel 2014, anno in cui il deficit si è attestato al 3% nonostante la vistosa contrazione del Pil (-0,4 per cento).
Il 2015 è dunque un anno di transizione verso uno scenario che sulla carta potrebbe essere finalmente incoraggiante per il nostro paese. Sta a noi non sprecare l’occasione propizia.