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 2015  marzo 12 Giovedì calendario

I cento anni di Burri, meglio l’America dell’Italia. Nelle celebrazioni per il centenario del grande artista il vero evento è la grande mostra al Guggenheim il 9 ottobre. In casa nostra, un francobollo, un comitato, la mostra a Città di Castello e la ricostruzione del “Teatro continuo”

Il nostro Paese ha emesso un francobollo per celebrarne i cent’anni dalla nascita (Città di Castello, 12 marzo 1915); ha anche costituito un comitato per le onoranze: prima riunione, proprio alla vigilia della ricorrenza, presente il ministro Dario Franceschini, che ha definito l’anniversario «una grande occasione» per ricordare il suo «lavoro straordinario». Però, per ricordare il più sperimentatore tra i nostri artisti, una enorme mostra si svolgerà dal 9 ottobre, ma a New York: il frutto del lavoro di quattro anni del museo Guggenheim. Da noi, per Alberto Burri (deceduto a Nizza, nel 1995), la Fondazione che ha istituito nella città natale fa quanto può: convegni; un’importante riunione con dieci direttori dei più grandi musei al mondo e 75 artisti internazionali; una mostra che pone a confronto due sue opere con due di Luca Signorelli, che gli era molto caro. Ma, soprattutto, patrocina la ricostruzione di un suo singolare capolavoro, il «Teatro continuo» a Milano, giardini della Triennale: Burri lo realizzò per quella del 1973, e nel 1989 è stato scioccamente demolito. Ed a Gibellina, sta completando il celebre Cretto: «Un sudario per le macerie del terremoto», dice Bruno Corà, che dirige la Fondazione. Lui lo aveva progettato immenso, 90 mila metri quadrati: «Adesso, ne realizziamo i 24 mila che ancora mancavano; così, si potrà apprezzare appieno la realtà di questa invenzione; e comprenderla, finalmente, del tutto e per davvero». Burri è caso unico nel panorama dell’arte. Schivo, burbero, lontano dalla mondanità in vita (come lo racconta Vittorio Rubiu, figlio adottivo di Cesare Brandi, che tanto lo apprezzò), è l’unico che abbia voluto raccogliere, quasi a futura memoria, gli esempi indicativi della propria produzione: «Spesso, ha perfino ricomperato certe sue opere, perché la tipologia non era rappresentata nell’autentico monumento che intendeva lasciare».
CREAZIONI
Oggi, a Città di Castello sono conservate oltre 250 sue creazioni: «Nel nostro Paese non esistono altri esempi del genere». Le più pregiate, e le più ricercate, sono i Sacchi degli Anni Cinquanta: anche perché ne ha eseguiti in scarso numero, e quindi sono molto rari. Ma il suo primato in una vendita è di cinque milioni e mezzo di euro, però per un’opera in plastica. Perché lui si è cimentato con tutte le tecniche più inedite: neri, catrami, muffe, sacchi, legni, ferri, combustioni, cellotex, plastiche. Era un innamorato della materia: «La sua materia, tremenda e splendida, ricca e poverissima», dice Lorenza Trucchi, «che giunge come una novità».
Burri non nasce pittore o artista. È medico. Va ufficiale in guerra; nel ’43 è fatto prigioniero in Africa del Nord; a Hereford, nel Texas, si converte. Lo raccontava Giuseppe Berto: «Decise che non avrebbe più fatto il medico perché si trovava in disaccordo con l’intera umanità». Dice che avrebbe fatto qualcos’altro. Al campo, arrivano colori e pennelli: li impugna per passare meglio il tempo? Chissà. Però, la sua storia nasce così, a 28 anni. Comincia tra il figurativo e il simbolista: c’è un solo dipinto nato nel campo: un Paesaggio con il treno e le baracche. È quasi giusto che la grande mostra per l’anniversario sia negli Usa: tra il 1953 e il ’55 l’America, assai prima che noi, gli dedica ben otto personali; quasi lo scopre. È l’amore per la (sua) innovazione, per ogni avanguardia? In Italia, la prima mostra è a Roma, nel 1947: lo presenta Libero de Libero. Nella Capitale, è una stagione di grandi fermenti. E del clima romano, lui certamente si nutrirà.
GLI USA
La prima Biennale è del 1952. In quell’anno, lo visita a Roma Robert Rauschenberg, e ne ammira i primi Sacchi. Già nel 1954 sono le prime Combustioni: dalla materia ne cerca una nuova; il ciclo dei Cretti è del 1973. Al Guggenheim, una mostra rimasta celebre è del 1977: ci torna adesso, 38 anni dopo. Nel 1981 crea la Fondazione, donandole 32 opere; ha già destinato il Premio Feltrinelli, ricevuto nel 1973, proprio quando inizia la serie dei Cellotex, al restauro di una pieve (ci pioveva) affrescata proprio da Signorelli. Dal 1976, un suo grande Cretto nero sta all’Università di Los Angeles; nel 1985, inizia quello di Gibellina, che ora sarà completato. Anche se non è tra le sue opere più felici, nel 1990 gli è affidato il manifesto per i Mondiali di calcio. Crea la Fondazione nella «sua» città di Castello a Palazzo Albizzini, di Città di Castello, «che ha ospitato perfino Raffaello, quando, a 16 anni, andava a studiare le opere di Perugino», dice ancora Corà. Lì c’è un suo Nero del 1948: è soltanto l’inizio. Nel dopoguerra, con Lucio Fontana, ha certamente dato il maggior contributo all’arte, non solo italiana. Ma forse, ancora adesso, lo amano e riconoscono più all’estero che da noi: i 100 anni dalla nascita non potrebbero costituire il momento giusto per emendarsi?