Libero, 11 marzo 2015
La ripresa annunciata da Renzi & Co. è già finita? I dati della produzione industriale a gennaio tornano negativi (-0,7%) contro una stima positiva di +0,2%. L’Italia ancora non riesce a sfruttare i regali della congiuntura e della Bce
Sospendiamo i brindisi. Il Quantitative Easing aiuta, ma non fa miracoli. E la festa, nonostante i segnali positivi, non è ancor cominciata. I tassi sui titoli di Stato continuano a scendere (l’1,22% per i decennali, spread a quota 98), arretra ancora l’euro sul dollaro (poco 1,07, ai minimi dall’aprile 2003). Pure il prezzo del petrolio torna a scendere sotto quota 60 dollari. Ma, nonostante questi grandi aiuti dall’esterno, l’economia italiana avanza a fatica. Quando avanza.
I dati sulla produzione industriale di gennaio sono stati una doccia fredda sull’ottimismo: -0,7% a gennaio, assai meno delle previsioni (+0,2%) pur confortate da diversi segnali positivi, vedi l’aumento dell’indice della fiducia. I numeri, in realtà, meritano conferme. A gennaio ci sono stati due ponti in cui hanno senz’altro influenzato il dato finale. Il Centro Studi Confindustria già anticipa che a febbraio è tornato il segno positivo (+0,4%). Inoltre, a giustificare l’ottimismo, ci pensa la produzione delle auto: +35,9% rispetto ad un anno fa, grazie anche (se non soprattutto) alla ripresa del made in Italy, Maserati in testa, ed all’avvio della produzione di Jeep a Melfi.
Ma, al di là di queste considerazioni, è evidente che i regali della congiuntura (tassi, dollaro e Qe) hanno finora elettrizzato i mercati finanziari ma non stimolato a sufficienza l’economia di casa nostra che patisce i soliti acciacchi. A partire dal credit crunch che continua a colpire le nostre imprese: i tassi dei prestiti a cinque anni alle imprese in Italia sono ancora al 5%, un punto sopra alla Spagna e due sopra Francia e Germania, conseguenza inevitabile della mole di crediti inesigibili (184 miliardi) o anche solo a rischio (350 miliardi) che pesano sulle banche di casa nostra. Il Qe, insomma, aiuta. Mica poco, visto che il risparmio per il Tesoro, in termini di minori interessi pagati sul debito, sarà di almeno 6 miliardi, cui si aggiungeranno i vantaggi per il sistema delle imprese, soprattutto quelle che possono rivolgersi direttamente sul mercato finanziario, dove i rendimenti per i corporate bond assomigliano ormai a prefissi telefonici. Ma se l’Italia non saprà sfruttare la congiuntura per tornare a crescere, come è possibile nell’attuale congiuntura, non sarà facile per Mario Draghi difendere il Quantitative Easing soprattutto se, come sostengono gli economisti tedeschi, l’inflazione è destinata a crescere più rapidamente di quel che non prevede la Bce.
Non è il caso, dunque, di abbassare la guardia. In giro per i mercati finanziari si respira infatti aria di battaglia. Oggi, a Bruxelles, riprende, dopo il flop di lunedì, l’esame del dossier Grecia. Il governo ellenico deve trovare il modo per ripagare un credito da 1,5 miliardi di euro al Fmi e per rifinanziare parte dei 3,2 miliardi di euro di obbligazioni a breve in scadenza. Ma l’emergenza va assai al di là delle pur pressanti esigenze di cassa. Atene, ancora una volta, rischia il default. E il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble è, se possibile, ancor più rigido nel chiedere il rispetto del memorandum già firmato con la trojka prima di riaprire i cordoni della Borsa. Oggi si torna a trattare, sull’orlo del baratro. Meno drammatico, ma non meno importante, la “revisione approfondita” delle leggi di stabilità di Italia e Francia. Diversi analisti di Wall Street parlano apertamente di guerra valutaria: da una parte gli Usa, preoccupati dall’ascesa del dollaro che minaccia da vicino la ripresa degli States. Dall’altra l’area euro, che ha adottato la politica di svalutazione competitiva rispetto al dollaro già praticata da Cina e Giappone. La Germania, nonostante la Bundesbank continui a sostenere di esser contraria alla politica di Quantitative Easing, è senz’altro il Paese che più sta guadagnando dalla frenata dell’euro che sta consentendo al made in Deutschland di contrastare l’avanzata del suo concorrente più temibile: il Giappone, l’unica economia industriale che può vantare, dalla chimica alla robotica fino all’auto, prodotti di analoga qualità. Queste tensioni, aggravate da voci di una possibile stretta sui patrimoni delle banche sistemiche allo studio a Basilea, hanno frenato le Borse, dopo i massimi raggiunti ad inizio settimana. Piazza Affari ha perduto poco meno di un punto percentuale, al pari degli altri listini del Vecchio Continente. Frena anche Wall Street dove è cominciato il conto alla rovesca in vista delle decisioni sui tassi della Fed, previste per il 18 marzo.