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 2015  marzo 11 Mercoledì calendario

L’ultimo Moresco. Quando un romanzo traghetta, fra i vivi e i morti, la storia del mondo

Antonio Moresco nacque all’imbrunire del 30 ottobre del 1947 e morì lo stesso giorno e lo stesso mese del 2010. Aveva 63 anni. Ho provato a immaginare cosa mi sarebbe piaciuto leggere sulla sua tomba. Una piccola frase che ricavo da Gli increati il nuovo sterminato romanzo (in uscita da Mondadori). È lì come una gemma solitaria: «Non diciamo più niente». Cosa c’è di più definitivo? Si esautora ogni voce, ogni parola, ogni frase. Si tace. Solo che per tacere occorre parlare, scrivere, raccontare e raccontarsi.
È il destino della letteratura. Che diversamente dalla vita ha bisogno delle parole per creare il silenzio e la morte. Deve crescere su se stessa se vuole svuotare l’universo.
Naturalmente Moresco non è mai stato meglio. L’ho anche sentito telefonicamente. Gli ho detto che ho esplorato il suo romanzo come una foresta intoccata. Che mi sono fatto largo in quel fogliame fitto, fra quei rami intricati, cercando un sentiero, una radura, una luce. Pensando: perché per trent’anni un uomo si è dedicato a una sola grande opera? Una sola grande architettura: avviata con Gli esordi, proseguita con I canti del caos e portata a termine con questo supplemento di mille pagine. A volte noiose. A volte folgoranti e strepitose. È difficile ricavarne una storia che abbia un senso, una direzione, un fine. Moresco è fastoso e lugubre, pietoso e crudele. Non c’è un io che racconti. Anche se al centro vi è sempre lui: lo scrittore con le sue idiosincrasie, le sue nevrosi, le sue allucinazioni. Gli increati è un romanzo carontico, traghetta, fra i vivi e i morti, la storia del mondo. E la narra soprattutto attraverso la guerra.
Nella visionaria ricostruzione degli eventi si avvertono gli effetti di una terza guerra mondiale che è già accaduta dispiegando la sua capacità distruttiva. Come raccontarla? Moresco si è messo dal punto di vista dei morti, di coloro che non ci sono più. «La vita è la distruzione, i vivi sono dei distruttori», scrive. È questa la loro storia, il loro destino? A giudicare dall’immane dolore che abbiamo saputo infliggere agli altri, ai pretesti razziali, alle insinuazioni etniche, al calcolo economico e al fideismo religioso, come pure a genocidi e stermini, quale credibilità si poteva attribuire alla voce dei vivi? Nessuna. Moresco non ha difficoltà a leggere tali pretese come consolazioni mentali. Eppure egli non rinuncia alla storia, ai suoi figuranti e protagonisti. E allora ecco comparire Napoleone, Lenin, lo Scià di Persia e Mao. Ecco la voce di Jan Palach, con il suo fuoco divoratore, dei ragazzi massacrati in piazza Tienanmen e di coloro che si sono lanciati in fiamme dalle torri gemelle di New York. Tutto arde in questo romanzo fatto di roghi. È un fuoco che non purifica, che non azzera, che non libera. Esercita la sua potenza distruttrice. Rivela semplicemente che la vita brucia come uno stoppino. E ciò che illumina è solo ciò che resta nella nostra provata memoria.
Moresco ha scritto molto. Libri talvolta di invenzione, favolistici e altri autobiografici. Negli Increati l’artificiale divisione è saltata. Qui invenzione e storia personale diventano una sola cosa. Ma non c’è nulla di introspettivo o di psicoanalitico. Moresco mette in dubbio la forza dell’inconscio e quella stessa dell’Io che ha smesso da tempo di rivendicare azione, soggettività, potenza. A volte ho l’impressione di aver assistito alla recita di un sogno. Per poi convincermi che quel mondo onirico non sia più indagabile con gli strumenti di Freud, di Jung o di Lacan, ma con quelli della fisica quantistica. Dove per accedere agli universi paralleli occorre deporre le categorie newtoniane. Non è un caso che la sensazione più forte nasca dalla constatazione che Moresco ami particolarmente leggere libri di scienziati. Ami il big bang, la materia e l’energia oscura, i buchi neri e i quanti. Chiedendosi, senza alcuna punta di superbia, come sia possibile che oggi – di fronte a tante conoscenze che dovrebbero cambiare non solo il nostro modo di vedere il mondo, ma anche i nostri ordinamenti politici, sociali, esistenziali – gli scrittori mettano la testa sotto la sabbia per poter continuare a raccontare le loro storielle.
Con il mondo immobile de Gli esordi e poi col ventre lirico ed esplosivo dei Canti del caos, fino a quest’ultima decisiva prova narrativa che è Gli increati Moresco ha disegnato una gigantesca trilogia: un’architettura circolare dove la fine sembra essere il vero inizio, e l’inizio contenere in sé lo sviluppo del romanzo: «Io invece mi trovavo a mio agio in quel silenzio». È l’incipit de Gli esordi: la ferita originaria che si rimarginerà solo alla conclusione del lungo viaggio. Ma sarà vera guarigione? Nella visione di Moresco i vivi, per quanti sforzi facciano, non hanno nessun vero consorzio umano che li protegga. Nessuna autentica comunità. Nessuna condivisione salvo forse la pretesa di voler diventare immortali. Il mito dell’immortalità è il più atroce dei fraintendimenti, il delirio della nostra epoca dominata dalla tecnica. È singolare che una specie incalzata dal proprio istinto suicida distrugga ogni cosa del pianeta ma al tempo stesso tenti di sconfiggere la propria morte. È il lascito più profondo di questo romanzo paradossale. Che non parla di vittorie e di sconfitte. Ma solo di ciò che sarebbe venuto dopo. È l’oltre che interessa Moresco, scrittore invisibile, morto e rinato per poterci raccontare la sua grande ossessione.