Il Sole 24 Ore, 11 marzo 2015
Processo delicato, il processo Ruby, per i suoi risvolti politici. Sia perchè rafforza Silvio Berlusconi nella partita delle riforme sia perché sull’epilogo ha pesato proprio una legge «anticorruzione», la legge Severino, voluta nel 2012 dal governo Monti e da una strana maggioranza di centrodestra e centrosinistra
Processo delicato, il processo Ruby, per i suoi risvolti politici. Sia perchè rafforza Silvio Berlusconi nella partita delle riforme sia perché sull’epilogo ha pesato proprio una legge «anticorruzione», la legge Severino, voluta nel 2012 dal governo Monti e da una strana maggioranza di centrodestra e centrosinistra.
Quanto basta per rimandare al mittente chi oggi accusa i magistrati di Milano, che quel processo hanno avviato sulla base di norme diverse, cambiate in corso d’opera dal legislatore, incurante delle ricadute sui processi in corso. In particolare la norma sulla concussione per induzione, divenuta un reato autonomo («induzione indebita»), diverso nella struttura e nel (più mite) trattamento sanzionatorio. Una vera e propria zeppa, che ha sancito la (prevedibile) assoluzione di Berlusconi.
Il collegio che ieri ha emesso il verdetto era formato da giudici esperti nei reati contro la pubblica amministrazione, da Giorgio Fidelbo al relatore Orlando Villone, da Stefano Mogini a Gaetano De Amicis, per di più presieduti da Nicola Milo (che sarà “prepensionato” entro quest’anno a causa della legge che ha abbassato a 70 anni l’età della pensione) autore della sentenza 12228 con cui, proprio un anno fa, le sezioni unite della Corte furono costrette a intervenire per mettere fine alla confusione interpretativa nata sul reato di concussione (il più grave tra quelli contro la Pa) con la legge Severino: prima della riforma, l’articolo 317 del Codice penale sulla concussione teneva insieme (punendole con la medesima pena) le condotte di costrizione e di induzione; dopo, invece, solo la costrizione è rimasta nell’articolo 317 (pena da 4 a 10 anni) mentre l’induzione è diventata un reato autonomo (articolo 319 quater) in cui il pubblico ufficiale è punito meno gravemente (da 3 a 8 anni) e che sanziona anche l’«indotto» (fino a 3 anni).
Uno «spacchettamento» destinato a pesare soprattutto sui processi in corso in cui era stata contestata la concussione per induzione: la pena più bassa per l’induzione ha infatti accorciato i termini di prescrizione, mandando in fumo prematuramente molti processi, tra cui quello a Filippo Penati; inoltre, la nuova struttura del reato ha creato confusione con concussione e corruzione nonché una zona grigia di impunità.
Le sezioni unite precisarono che «il criterio di essenza della fattispecie induttiva» è rappresentato dall’«indebito vantaggio» del soggetto indotto, in mancanza del quale, quindi, la condotta del pubblico ufficiale può perdere rilevanza penale. La sentenza fu un compromesso “politico” perché da un lato affermava la «totale continuità normativa» tra vecchia e nuova induzione (diversamente, la legge Severino si sarebbe trasformata in un colpo di spugna su migliaia di processi), dall’altro lato, però, doveva prendere atto che il legislatore aveva trasformato l’induzione in un reato «plurisoggettivo a concorso necessario», che richiede la combinazione di due elementi: «l’abuso prevaricatore del pubblico agente» e il «fine determinante di vantaggio indebito dell’extraneus». Pertanto, se prima della legge «l’indebito vantaggio» era solo una delle possibili, ma non necessarie, motivazioni dell’indotto, con la Severino è diventato un requisito strutturale senza il quale la condotta perde rilevanza penale.
A questa interpretazione si era adeguata la Corte d’appello di Milano. Prima ha escluso (sempre sulla base delle indicazioni delle sezioni unite) che la telefonata in Questura fosse configurabile come «concussione per costrizione», cioè come una minaccia (anche implicita) di un male ingiusto o come violenza irresistibile tale da mettere l’interlocutore con le «spalle al muro». Poi ha verificato se ci fossero gli estremi per l’induzione, ma lo ha escluso non rinvenendo la prova che Ostuni avesse assecondato Berlusconi per conseguire un «indebito vantaggio», cioè per un tornaconto personale.
Del resto, nel 2011 (cioè prima della riforma) la Procura di Milano aveva contestato a Berlusconi il reato di concussione per induzione, non ritenendo che vi fossero, nella sua condotta, né minaccia né violenza e, soprattutto – ricorda la Corte d’appello – senza fare mai riferimento a un possibile vantaggio personale di Ostuni. All’epoca, questo era un dettaglio irrilevante perché la vecchia induzione stava in piedi anche senza «l’indebito vantaggio» del concusso. Poi è arrivata la legge Severino e ha mischiato le carte: cambiando i connotati all’induzione, ha creato le premesse per un epilogo assolutorio di questo e di altri processi. Uno scenario che, all’epoca, fu evocato da qualche Cassandra inascoltata: governo e maggioranza tirarono dritto (e Forza Italia si sfregava le mani). Ma tant’è. Intervenuta la legge, la Procura continuò a chiedere la condanna di Berlusconi per induzione, con riferimento all’articolo 319 quater. Era un rischio, ma fu una scelta coerente e corretta per non forzare la mano con la costrizione. Il Tribunale, invece, forzò, forse per scavalcare le sezioni unite che nel frattempo avevano reso scivolosa l’induzione, richiedendo come elemento essenziale del reato «l’indebito vantaggio». Un elemento che né il Tribunale né la Corte sono riusciti a dimostrare e questo – lo ha ricordato ieri nella relazione il giudice Villone – è l’unico punto su cui i giudici di primo e di secondo grado si sono trovati d’accordo, pur giungendo a conclusioni diverse. Un punto decisivo che ha fatto vincere la partita a Berlusconi. Grazie alla legge Severino.