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 2015  marzo 11 Mercoledì calendario

Tutti i cachet della lirica. Compensi fino a 30.000 euro per i direttori, 20.000 per i cantanti. Ma alcuni teatri pagano in ritardo. E gli artisti vanno all’estero

C’ è chi, come Cecilia Bartoli, il cachet stellare se lo mette in tasca la sera stessa del concerto e chi per una manciata di euro deve attendere mesi se non anni. C’è chi come Pollini o Lang Lang non si avvicina al pianoforte se prima non ha incassato quanto previsto dal contratto, e chi deve accettare le drastiche imposizioni del committente: o così, o niente.
Ci sono i teatri «virtuosi» che pagano puntualmente e quelli in difficoltà, che dovrebbero affiggere all’ingresso artisti l’avviso: lasciate ogni speranza o voi che entrate. «Perché chi va a cantare lì dentro lo fa a suo rischio e pericolo» assicura al Corriere Andrea Concetti, basso baritono di solida fama, apprezzato da Claudio Abbado. Le brutte esperienza non mancano. «Anni di attesa per riscuotere quanto mi dovevano per un Don Giovanni. E ancora non è finita». Ritardi inconcepibili fino a qualche tempo fa, ormai diventati la norma traviata di tanti enti lirici. A svelare finalmente tariffari di solito segretati, ritardi e debiti delle fondazioni, provvede ora Classic Voice. Nel numero da oggi in edicola, il mensile diretto da Andrea Estero svela i cachet in vigore nelle istituzioni musicali del nostro Paese, un «tetto» stabilito dagli stessi Enti lirici per metter fine alla deregulation anni 80-90 quando l’Italia era per gli artisti il Paese del Bengodi.
Trentamila euro a concerto sono ora la cifra massima per i top della musica. Per direttori come Barenboim, Chailly, Whun Chung, Dudamel, Gatti, Harding, Mehta, Muti, Rattle, Thielemann… Stessa cifra, sempre a concerto, va ai grandi solisti quali Pollini, Lang Lang, Radu Lupu, Kavakos, Sokolov.
Sul fronte cantanti, tra i primi della lista (20 mila euro per concerto, 17 per ogni recita d’opera) troviamo Bartoli e Domingo, Renée Fleming ed Elina Garanca, Kaufmann e Florez.
Infine, sul fronte registi, Robert Carsen e Calixto Bieito, Peter Stein, Bob Wilson, Graham Vick e Damiano Michieletto viaggiano nella quota 60 mila euro a allestimento.
Una serie A indenne alle traversie di cassa, che può permettersi il lusso di scegliere le sale «giuste»: la Scala di Milano, Santa Cecilia a Roma, la Fenice di Venezia, il Massimo di Palermo. Tutto il resto è black list. Perché, rivela Classic Voice, al Lirico di Cagliari si aspettano mediamente tre anni prima di riscuotere il cachet, a Genova un anno, a Firenze nove mesi, dai 7 ai 9 mesi all’Opera di Roma, tra i 60 e 90 giorni a Bologna… La causa di tanti e tali rinvii va cercata nella mancanza di liquidità dei teatri, che anche se hanno il bilancio in ordine, ricevono irregolarmente i fondi governativi, magari decurtati causa crisi. Dilazioni e rimandi «originari» che innescano una catena perversa, indecorosa per i teatri, mortificante per gli artisti. A farne maggiormente le spese, la fascia intermedia e i giovani. Questi ultimi costretti spesso a lavorare gratis, pagandosi in più di tasca propria le spese di soggiorno e di trasferta.
Così scatta la grande fuga fuori confine. Dove le tariffe sono magari un po’ inferiori alle nostre, ma c’è la garanzia di essere pagati e la certezza dei contratti. «All’estero si firmano anche con anni di anticipo mentre da noi talvolta il giorno stesso in cui metti piede in teatro» svela al Corriere Roberto Abbado, bacchetta autorevole, appena nominato direttore musicale al Palau de les Arts di Valencia in coppia con Fabio Biondi. Altri due nostri artisti che lasciano l’Italia.
«Dove questo malcostume è un ostacolo a una seria programmazione. Di recente però ho notato che anche all’estero i pagamenti non sono più tanto puntuali. Nei mesi scorsi mi è successo in Spagna e persino negli Stati Uniti. Purtroppo il cattivo esempio dell’Italia sta facendo scuola».