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 2015  marzo 10 Martedì calendario

Il decisionismo del governo ma «una politica che non possa contare su una sua oligarchia, su una sua tecnocrazia, su una sua buona burocrazia, è una politica letteralmente inerme, destinata a restare puro esercizio di annuncio». Così dice Giuseppe De Rita

Quando la politica traduce le sue ambizioni di primato in specifiche decisioni di sviluppo e di riforma, si ritrova fatalmente a fare i conti con la loro necessaria implementazione, con i modi cioè in cui esse possano essere trasposte in comportamenti e fatti concreti. Si ritrova quindi a doversi affidare agli ambienti tradizionalmente «specialisti» dell’implementazione: a una ristretta cerchia oligarchica; o a ristretti circuiti tecnocratici; o alla tradizionale burocrazia, titolare dei minuti poteri quotidiani. Una politica che non possa contare su una sua oligarchia, su una sua tecnocrazia, su una sua buona burocrazia, è una politica letteralmente inerme, destinata a restare su un decisionismo di massima, talvolta puro esercizio di annuncio. 
Se si legge in controluce l’attuale realtà politica italiana si possono intravedere i segni di un tale pericolo di inermità. L’attuale governo si è molto speso nel ribadire e rilanciare la decisionalità della politica, ma non scattano i processi di sua implementazione: la burocrazia, tradizionale «intendenza», non segue, perché si è strutturalmente spappolata (tanto per fare un esempio, colpisce il quasi nullo contributo del ministero della Pubblica istruzione sul confezionamento del cosiddetto Piano scuola); la tecnocrazia tende a confinarsi nei propri settori elettivi senza più rischiare innovazioni su temi che tecnici non sono (in fondo scontando l’infelice esperienza di alcuni governi a forte caratura tecnocratica); e l’oligarchia non è cosa (soggetto e potere) che si formi solo concentrando le decisioni in poche persone fidate, di solito più propense a fare cerchio magico che a connettersi con la molteplicità dei poteri che è tipica della realtà italiana. 
In conclusione, senza burocrazia, senza tecnocrazia, senza oligarchia è difficile governare il sistema, nelle sue diverse articolazioni. Per cui, anche chi ha nell’ultimo anno guardato con rispettoso interesse il vigoroso rilancio della decisionalità politica, non può non vedere con preoccupazione questo tendenziale pericolo di inermità di una politica che si dichiara egemonica. 
In fondo, nella nostra storia unitaria ogni fase di primato della politica è stata supportata da qualche protagonista della implementazione: la fase post-risorgimentale fu gestita con il supporto della burocrazia piemontese; Giolitti governò con un legame stretto con i prefetti; Mussolini dette ampio spazio alla oligarchia di Beneduce e dei suoi uomini (Menichella, Mattioli, Saraceno, ecc.); la Dc del dopoguerra si fidò degli eredi di quest’ultima oligarchia (operante nelle partecipazioni statali e nella Cassa del Mezzogiorno) ma cooptò anche, e senza battere ciglio, la burocrazia cresciuta nel ventennio precedente; e lo stesso Craxi, il più vocato al decisionismo, si attrezzò con una sua oligarchia, anche a buona taratura tecnocratica. Solo la cosiddetta Seconda Repubblica, ubriaca di personalizzazioni verticistiche, non ha avuto attenzione alla fase di implementazione delle decisioni; e ne abbiamo tutti sofferto le conseguenze. 
Il problema della implementazione operativa delle decisioni politiche è quindi aperto e verosimilmente l’intelligenza dell’attuale premier lo ha già percepito: in fondo, è nelle condizioni di non avere più paura delle estenuanti mediazioni che ha con determinazione rottamato; ma deve al tempo stesso evitare il pericolo di restare nelle grandi opzioni senza curarne la loro implementazione. 
Certo dovrà superare la sua innata diffidenza per tecnocrati, burocrati ed oligarchi; ma la sua sfida per il futuro prossimo è proprio sul valico fra decisionalità politica e sua trasposizione nei fatti.