la Repubblica, 10 marzo 2015
Ora che la tensione tra Atene e l’Ue è tornata alle stelle, Tsipras teme la fuga di capitali. E a complicare le cose ci si mette pure il ministro della Difesa Panos Kammenos: «Se l’Europa ci abbandona la inonderemo di immigrati, terroristi compresi, i documenti per arrivare a Berlino glieli daremo noi»
La Grecia torna a fare i conti con la sindrome-Cipro e con l’incubo dei controlli sui capitali. Lo spettro dei limiti ai prelievi sui bancomat e al movimento dei soldi depositati sui conti correnti era già stato ventilato durante il drammatico Eurogruppo del 20 febbraio. «Senza un accordo – spiega un rappresentate della delegazione ellenica a quel tavolo – alla riapertura delle banche sarebbero stati imposti severissimi limiti alla circolazione dei contanti». Ora che la tensione tra Atene e l’Europa è tornata alle stelle, il tema ha ripreso a circolare in ambienti comunitari. La stessa telefonata della scorsa domenica di Alexis Tsipras al governatore della Bce Mario Draghi sarebbe servita, tra l’altro, a sondare il campo sulla posizione di Eurotower su queste ipotesi. Il timore del premier è che iniziative di questo tipo possano far ripartire la fuga di capitali dalle banche nazionali. I greci hanno ritirato 25 miliardi tra gennaio e febbraio con i depositi scesi ai minimi da diversi anni attorno a quota 150 miliardi. E un’altra emorragia rischierebbe di mettere in ginocchio un paese già a corto di liquidità.
Gli esempi in arrivo dalla politica, del resto, non sono né virtuosi né tranquillizzanti. Gikas Hardouvelis, ex ministro delle finanze del governo di Antonis Samaras, ha ammesso ieri di aver spostato nel 2012 in Gran Bretagna (pare nel paradiso fiscale di Guernsey) 450mila euro con una serie di piccole transazioni per sfuggire ai controlli. «Operazioni legali – dice lui che in quel periodo era advisor del primo ministro Lucas Papademos – Avevo paura del default e volevo mettere al sicuro il capitale per i miei figli».
La cacofonia e la scarsa chiarezza dei ministri ellenici è anche oggi – dicono i falchi a Bruxelles – la causa principale delle incomprensioni sull’asse tra Grecia e creditori. La scorsa settimana tre responsabili di dicastero ad Atene hanno presentato nello stesso giorno tre progetti diversi sulla riforma dell’Iva. Balletti simili sono andati in scena – e ci vanno tuttora – sul fronte delle privatizzazioni. Yanis Varoufakis ha prima detto di aver chiesto al Fondo Monetario un riscadenzamento dei debiti ellenici, poi ha minacciato di non pagare la Bce. Ora ha ventilato l’ipotesi di un referendum, non sull’euro ma sulle riforme da introdurre per rimanerci agganciati. Ipotesi impossibile, dicono i fini giuristi di Atene, visto che l’articolo 44 della Costituzione impedisce consultazioni popolari su temi fiscali.
A intorbidire ancora un po’ le acque hanno pensato prima il ministro degli esteri Nikos Kotzias, poi quello della difesa Panos Kammenos, minacciando di dare ai migranti i documenti necessari per uscire dalla Grecia ed entrare nel resto d’Europa senza preoccuparsi troppo se tra chi abbandonerà il paese «si potranno infilare militanti dell’Isis». Parole che non hanno certo facilitato i già difficili negoziati di Bruxelles. Colpa dell’inesperienza di un partito abituato da 40 anni a stare all’opposizione, dice qualcuno. Di sicuro però a Bruxelles non sono piaciute nemmeno le manovre di finanza creativa tentate negli ultimi giorni per dribblare la crisi di liquidità. Il primo episodio incriminato è l’intervento della Banca di Grecia la scorsa settimana per evitare il flop dell’asta di titoli di stato a breve. Il secondo è stato il tentativo di spostare 450 milioni dal conto del fondo salvabanche (di cui è titolare la Ue) a quello dell’erario. Mossa bloccata subito dall’Eurogruppo. Dove però la strada per Atene, complici tutti questi episodi, è sempre più in salita.