Corriere della Sera, 9 marzo 2015
L’inglese ormai è necessario, ma bisognerebbe tornare a parlare un po’ di più in italiano. Per ogni termine anglofono esiste una parola equivalente nella nostra lingua
C’è chi sostiene che con la sua arte diplomatica Henry Kissinger, negli Anni 70, abbia introdotto l’inglese quale lingua della diplomazia internazionale, soppiantando di fatto il francese di lungo corso. Non so se ciò corrisponda al vero ma, ammesso che ci sia ancora necessità di disporre di un idioma comune in ambito diplomatico, ritengo sia giusto dare precedenza a quello in uso in quei Paesi che più fanno della diplomazia virtù, con risultati tangibili universalmente riconosciuti e apprezzati.
Alessandro Prandi
Caro Prandi,
Non credo che Kissinger abbia avuto, per le fortune dell’inglese, meriti particolari e non credo che una lingua veicolare possa essere scelta in omaggio alle virtù del Paese in cui è parlata. L’inglese deve il suo ruolo ad alcuni fattori molto concreti. In primo luogo è stata la lingua dell’Impero britannico, un insieme di terre asiatiche e africane su cui, come si diceva dei possedimenti spagnoli all’epoca di Carlo V, non tramontava mai il sole. Coloro che aspiravano a commerciare con l’India, con il Sud-Est asiatico o con le colonie britanniche a sud del Sahara, scoprivano rapidamente, sin dal XIX secolo, che l’uso dell’inglese era indispensabile.
In secondo luogo, questa era la lingua di un altro Paese, al di là dell’Atlantico, che sarebbe diventato, dopo la guerra di secessione americana, una grande potenza industriale e, insieme alla Gran Bretagna, il maggiore mercato finanziario del mondo. Se Wall Street e la City parlano inglese, la finanza mondiale non può che adeguarsi. Più recentemente la globalizzazione e le nuove tecnologie hanno drasticamente ridotto i tempi delle comunicazioni e moltiplicato la quantità degli scambi, non soltanto economici. Ma se uno studioso e un ricercatore vogliono approfittarne per raggiungere gli ambienti scientifici e culturali più lontani, dovranno farlo in inglese. Gran parte della letteratura scientifica, quale che sia la nazionalità degli autori, viene oggi scritta e pubblicata in inglese.
Quanto alla lingua della diplomazia, caro Prandi, il francese ha tenacemente e nobilmente resistito per conservare l’egemonia conquistata nell’Europa di Luigi XIV. Ma è stato sopraffatto da almeno due eventi strettamente collegati. Il primo è lo status raggiunto dagli Stati Uniti nella politica mondiale durante la seconda metà del XX secolo. Il secondo è il ruolo assunto dalla diplomazia multilaterale nella politica internazionale. In un mondo ormai popolato da sigle internazionali – Onu, Ue, Nato, Oecd, Ocse, Fao, Opec, Oms – ogni delegato parla la sua lingua nelle occasioni assembleari. Ma non appena occorre affrontare una questione importante, scambiare idee e negoziare, l’inglese è indispensabile.
A chi teme che questo processo finisca per uccidere le lingue nazionali, posso offrire qualche consolazione. Quanto più è usata da un numero crescente di persone che non la parlano sin dall’infanzia, una lingua tende a diventare arida, sommaria e schematica. Vi è quindi ancora un grande spazio nella nostra vita quotidiana, nella espressione dei nostri affetti e nella letteratura, per le lingue nazionali. Ma occorre evitare che vengano continuamente avvilite e deturpate dall’uso improprio e snobistico di termini inglesi per cui esiste una parola equivalente nella lingua nazionale. Benvenuta quindi una recente iniziativa di Anna Maria Testa, pubblicitaria, giornalista, docente universitaria: una «petizione per invitare il governo italiano, le amministrazioni pubbliche, i media, le imprese a parlare un po’ di più, per favore, in italiano».