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 2015  marzo 09 Lunedì calendario

Come si trasformano i padri. Cambiano i pannolini, organizzano le festicciole cucinano, anche a costo di prendere ferie: i nuovi papà, soprattutto i trentenni, somigliano sempre più alle loro compagne. La tenerezza non fa paura e diventa un arricchimento. Ma, secondo gli esperti, questa trasformazione è anche sintomo di infantilità

Affollano orgogliosamente le sale parto. Tagliano sicuri il cordone ombelicale dei loro attesissimi figli. Le statistiche italiane non li registrano ancora come massa, ma nemmeno più sotto la voce “avanguardia”. In America sono catalogati con la sigla «Hcd» (High Care Daddies), noi li decliniamo, più dolcemente, come “padri materni”, o “padri coinvolti”, ma anche “padri accudenti o egualitari”. Sinonimi di quella che è stata definita forse l’ultima rivoluzione antropologica: la metamorfosi del genitore maschio. Mutazione iniziata più o meno trent’anni fa, se si parte dalla comparsa dei primi studi sui “mammi”, neologismo ormai arcaico e non bellissimo per definire quei papà non più in fuga davanti biberon e pannolini, ma felici e disposti nel farsi coinvolgere- travolgere dall’accudimento primario dei loro neonati. Un cambiamento così radicale che saggi e ricerche, oggi, provano a capire che tipo di famiglia è nata dalla metamorfosi di quei padri. Quali sono stati gli impatti sui figli, quali gli effetti sulla vita di coppia e sulla sessualità. Oscillando spesso tra due estremi. Tra quanto sostiene ad esempio l’American journal of human biology, secondo cui negli uomini “accudenti” si svilupperebbero addirittura gli ormoni femminili della gravidanza. E, all’opposto, le teorie per cui i padri “materni” invece non esisterebbero affatto. Anzi, la generazione dei “mammi” sarebbe caratterizzata da un chiaro istinto di fuga dalle responsabilità.
In realtà, come affermano più ricerche, e anche i saggi di due psicoanalisti, Simona Argentieri e Gustavo Pietropolli Charmet, la rivoluzione è in atto, e di questi nuovi padri italiani esiste anche un dettagliato identikit. Lo ha tracciato, di recente, Tiziana Canal, sociologa dell’Isfol e ricercatrice all’università Carlos III di Madrid, sulla base di oltre seimila interviste a donne tra i 25 e i 45 anni. Ciò che emerge con chiarezza è che gli high care daddies sono uomini tra i 31 e i 35 anni con figli al di sotto dei tre anni, hanno mogli e compagne lavoratrici con titoli di studio alti e vivono nel centro nord. Questi papà “materni” (nell’88% dei casi) vestono e lavano i figli, naturalmente ci giocano, e li accompagnano a dormire la sera. Aggiunge Tiziana Canal: «Con la crisi economica molti padri, lavorando di meno, si sono ritrovati ad avere più tempo libero, e sono stati quasi “costretti” a trascorrere questo tempo con i figli. Per poi invece ammettere di averne scoperto la grande opportunità». Ma quali sono le ombre? Gli elementi essenziali della figura paterna, la forza, l’autorevolezza, riescono a resistere e convivere con la tenerezza e l’accudimento? Domande a cui ha provato a dare una risposta, con un saggio denso ma agile insieme, la psicoanalista Simona Argentieri, nel libro “Il padre materno” (Einaudi), in cui attingendo non soltanto alla sua esperienza clinica, ma anche al mito, alla storia e all’arte, racconta i nuovi papà. Tra conquiste, perdite, incertezze. Scrive Argentieri: “Tanti giovani uomini si stanno rivelando non solo perfettamente in grado di svolgere le funzioni materne primarie, ma anche di trarne un profondo, intimo appagamento. Ciò sembra testimoniare che – al di là del valore positivo delle battaglie femminili, con cui le donne hanno ormai solidamente conquistato il diritto a un’esistenza completa di intelletto e affetti – anche i maschi, sia pure dopo drammatici travagli, hanno beneficiato di questa rivoluzione”.
E pur non sottovalutando l’altra faccia di questi nuovi padri, dall’arte della fuga all’essere infantili, questa rivoluzione della “maschilità” (termine a cui ci dovremo abituare), per Simona Argentieri sembra essere per ora a tutto vantaggio dei più piccoli. Per i quali la tenerezza paterna “è fonte potenziale di arricchimento e pienezza del rapporto”.
Dunque, laddove ci sono, i “padri materni” sono elementi nuovi e positivi. Il problema è il loro numero. Esiguo, ancora. Almeno a giudicare dai dati Istat sulla condivisione del lavoro domestico nelle famiglie italiane. Tre ore e trentanove minuti il tempo dedicato all’accudimento della famiglia da parte delle mamme, contro un’ora e quattordici minuti dei padri. Eppure sono molti, a cominciare dagli scrittori, a dichiararsi “innamorati” del mestiere di genitore. Sandro Veronesi, ad esempio, che nei suoi libri continua ad esplorare il tema della paternità, ha più volte raccontato di essersi occupato in prima persona dei suoi quattro figli. Dividendo cioè con loro quella quotidianità che è il vero linguaggio tra grandi e piccoli. “Più che un padre – ha detto Veronesi – sono una madre”. Addirittura padri-scrittori che con coraggio hanno descritto il loro accudimento verso figli “diversi”. Da Gianluca Nicoletti e il suo ragazzo autistico, a Dario Fani e il suo bimbo down.
Qual è allora la realtà? «Una via di mezzo tra i dati dell’Istat e l’esaltazione di una figura “nuova” che però è presente soltanto in certi ambienti», dice Carmen Leccardi, docente di Sociologia alla Bicocca di Milano. «C’è una contraddizione tra il desiderio dei padri di esserci, e la condivisione domestica, che resta ancora molto parziale. Di certo i maschi oggi cercano un contatto con le proprie emozioni e ne rivendicano il diritto». In un contesto sociale dove però molti si sentono ancora schiacciati da logiche tradizionali. «A cominciare – ricorda Leccardi – dalla disapprovazione aziendale per chi prende il congedo di paternità, un numero comunque infinitesimale, soltanto l’8% dei neo-padri».
Sono i figli invece a raccontare i loro padri “materni” nel saggio “Diventare grandi” dello psicoanalista Gustavo Pietropolli Charmet. “Il riflesso di queste nuove figure maschili lo vedo nelle descrizioni degli adolescenti che ascolto. I ragazzi – quando i padri ci sono perché non è scontato – li descrivono come genitori coinvolti, vicini, che non sentono il bisogno di mostrarsi virili, ma hanno invece un’attesa narcisistica verso i successi dei figli. I quali figli però, nonostante tutto, sembrano trarre indubbi vantaggi da questo tipo di paternità senza conflitti”. Claudio Rossi Marcello, padre gay di ben tre bambini, è autore di un fortunatissimo blog (su “Internazionale.it”), dal titolo “Hallo daddy”. Blog nel quale discute, molto spesso con genitori “etero”, di figli, famiglia, educazione... «Conosco sempre più uomini che quando scoprono la paternità impazziscono, e cercano di viverla fino in fondo. Senza per questo sentirsi meno “virili”. In Italia i maschi cominciano adesso a comprendere che essere genitori non è una questione di genere, ma di disponibilità, e dunque si può essere intercambiabili».