la Repubblica, 9 marzo 2015
Lo straordinario caso della mamma americana che si è inventata scienziata e ha scoperto i geni responsabili della patologia rarissima dei suoi due figli. La sua intuizione ora è un brevetto condiviso: «La speranza di una cura deve essere gratuita»
«Oh no, non sapevamo nulla di scienza. Siamo appassionati di geologia e di mare, ma né io né mio marito avevamo mai studiato biologia» esclama Sharon Terry, americana, 58 anni e una platea di scienziati venuta oggi ad ascoltarla alla convention di Telethon a Riva del Garda. Partendo da zero, Sharone e suo marito Patrick hanno individuato il gene che causa la malattia rara dei figli Elizabeth e Ian (27 e 25 anni). E se oggi lo pseudoxantoma elastico (pxe) – malattia ereditaria che provoca la calcificazione dei tessuti elastici di pelle, arterie e retina e porta alla perdita della vista – ha una causa nota, è grazie alla determinazione di questi genitori di giorno e scienziati di notte. Poiché i coniugi Terry hanno materialmente partecipato alla scoperta, a loro e all’associazione di pazienti “Pxe International” è stato intestato il brevetto del gene. «Affinché nessuno possa mai chiedere denaro ai pazienti e tutti i dati vengano resi pubblici» precisa Terry, che per il suo lavoro è stata nominata presidente di Genetic Alliance, una rete di diecimila associazioni di pazienti nel mondo.
Quando ha notato che qualcosa non andava nei suoi figli?
«Nel 1993 Elizabeth aveva sei anni. Notai delle macchie sulla pelle all’altezza del collo. Il pediatra disse che non era niente ma io la portai da un dermatologo che per caso aveva anche studiato oculistica. Lui riconobbe il Pxe immediatamente. Puntò il dito su Ian e disse: “Ce l’ha anche lui”. Poi spense le luci e si mise a visitare Elizabeth agli occhi. Questo mi spaventò più ancora del nome lungo e orribile della malattia. Perché la visita agli occhi se mia figlia ha una malattia della pelle? Non sapevo ancora che molte malattie genetiche colpiscono diversi organi contemporaneamente».
Ha trovato aiuto fra le istituzioni dopo la diagnosi?
«No, ma non avevano molto da offrire. Le informazioni sulla malattia erano scarse. Abbiamo dovuto prendere tutto nelle nostre mani e in questo la nostra storia è stata simile a quella di tanti altri pazienti».
Cosa facevate all’epoca?
«Pat era un ingegnere che si occupava di sistemi antincendio. Io seguivo l’educazione dei figli, che studiavano a casa».
Come vi siete ritrovati in un laboratorio di genetica?
«Subito dopo la diagnosi abbiamo cercato e affittato un laboratorio. Il primo passo è stato raccogliere campioni di sangue e far correre il Dna su un gel per il sequenziamento. Lavoravamo di notte, quando gli altri scienziati erano a casa. Non abbiamo impiegato molto a trovare la regione dove il gene poteva trovarsi. Per raffinare la ricerca abbiamo iniziato a collaborare con altri tre laboratori e nel 1999 abbiamo raggiunto l’obiettivo: il gene ABCC6, il responsabile dello pseudoxantoma elastico, era finalmente stato scoperto. Mio marito è stato effettivamente più abile di me. Dalle regolarità che emergevano nei dati, solo guardando i tabulati, lui è stato in grado di dedurre che il gene si trovava sul cromosoma 16».
Come hanno accolto gli scienziati la vostra scoperta?
«Sono stati tutti sorprendentemente generosi. Fin dall’inizio ci hanno concesso tempo e attenzione. Quando leggevamo un articolo scientifico, scrivevamo al ricercatore che l’aveva pubblicato e lui di frequente ci invitava a visitarlo per discutere. La persona più collaborativa l’abbiamo trovata in Italia: Ivonne Pasquali Ronchetti dell’università di Modena. Siamo andati a trovarla subito dopo la diagnosi e lei ci ha insegnato quel stava scoprendo nelle cellule delle persone malate di Pxe. All’epoca viaggiavamo in camper per visitare i vari scienziati che in Europa lavoravano alla malattia. Lei ci ha fatto parcheggiare sul vialetto di casa e ci ha preparato una splendida cena dopo aver lavorato tutto il giorno. Che donna fantastica. Nel suo laboratorio ci siamo sentiti rispettati e trattati come colleghi. Ricordo invece una delle prime riunioni di pazienti cui partecipammo. Quando raccontammo che volevamo finanziare e condurre personalmente la ricerca sullo Pxe ci risero dietro».
La notizia della scoperta è stata pubblicata su una rivista scientifica?
«Sì, in due articoli su Nature Genetics. C’erano le nostre firme e quelle di altri due laboratori con cui avevamo lavorato in contemporanea».
Gli scienziati senza di voi avrebbero raggiunto lo stesso risultato?
«Non so. Penso che abbiamo dato una grande spinta alla ricerca mettendo insieme una rete di persone affette da Pxe, allestendo una banca dei tessuti e del sangue e finanziando una grossa quota del lavoro, soprattutto in Europa. Molte scoperte le abbiamo fatte ascoltando le persone. Le esperienze dei pazienti sono essenziali per capire come progredisce la malattia e cosa serve per alleviare le sofferenze».
Consiglierebbe ad altri genitori di seguire il vostro esempio?
«Consiglierei ai genitori di impegnarsi, farsi coinvolgere, lottare per trovare una soluzione e collaborare. Bisognerebbe costruire nuove strade ancora più creative ed efficaci della nostra, grazie a strumenti come internet».
Perché avete deciso di brevettare il gene?
«Non volevamo che un’università si impossessasse del gene. Né che accumulasse i dati che arrivano dalla ricerca o imponesse prezzi alti per l’acquisto dei test genetici. Il brevetto oggi permette al gene di essere libero come un uccello. Noi raccogliamo i dati sui test genetici di tutto il mondo e li rendiamo pubblici».
I ragazzi come stanno?
«Sono felici. Elizabeth è al secondo anno di “Teach for America”, un programma per insegnare nelle aree disagiate. È fidanzata con una ragazza stupenda e si sposeranno a luglio. Ian dirige una fattoria organica, sviluppa siti web e si è sposato la scorsa estate. Sono una grande fonte di saggezza per le nostre vite».