il Fatto Quotidiano, 9 marzo 2015
Fare il pubblico in tv come professione. Fu la televisione di Falqui a sdoganare lo spettatore, oggi sono diventati figuranti. Gli applausi vengono pilotati da un coach di studio che prima della trasmissione fa anche da motivatore
Nella storia della televisione italiana sono stati spettatori, col tempo sono diventati figuranti, poi pedine a servizio dello share. In rare eccezioni invece di essere usate sono loro che hanno usato il mezzo, come quella Ruby che ancora non aveva fatto capolino nei verbali di polizia e ogni settimana si metteva all’ingresso della trasmissione di Chiambretti per farsi notare. E alla fine ci è anche riuscita. Freccero dice che parlare di loro, delle persone che si siedono in studio per una qualsivoglia diretta, vuol dire “aprire un romanzo, scrivere un film come Nashville di Robert Altman”. Sono diversi, come diverse sono le trasmissioni che scelgono. “Rappresentano quello che è il mondo infinito della televisione”, dice ancora Freccero. Non sono classificabili, cambiano di volta in volta, a seconda del format, del conduttore, della natura della trasmissione. Anche geograficamente cambiano: il pubblico che va a Cologno Monzese, a Mediaset, non è quello della Rai. Ma è diverso anche quello che si presenta a Cinecittà, dove registrano Servizio Pubblico, piuttosto che quello della Vita in diretta a via Teulada”. Freccero poi tira fuori dalle tasche della sua mente le categorie: “Ci sono i tifosi, che vanno ai talent, i pensionati del mattino, quelli che vanno a perdere la domenica a Mediaset. O quelli, ancora, che si presentano da Santoro o da Corrado Formigli e Paolo Del Debbio. Non esiste il pubblico, ce n’è uno per ogni programma. Diverso è invece quello della tv in bianco e nero che faceva Antonello Falqui: quelli erano spettatori”.
Nel gergo stretto si chiamano figuranti. Qualcuno con l’acqua alla gola, perché un tempo pagavano, oggi sempre meno e in poche trasmissioni. Nonostante tutto, loro, il popolo che forma il pubblico, sono un aspetto fondamentale per la riuscita della trasmissione televisiva, che sia politica o intrattenimento. Prima di assumere le parti odiosamente superiori bisognerebbe fare un salto più in là. New York, per esempio. Fuori dall’Ed Sullivan Theater di Broadway, dove tre giorni alla settimana si registra il Late Show by David Letterman, ci sono codazzi di persone da non credere. E per entrare si paga. Come se non bastasse, spiegano dalla Cbs, la maggior parte “sono turisti, italiani soprattutto, ogni età e cultura”.
In Italia, che sia la domenica di Barbara D’Urso o la seconda serata (registrata) di Bruno Vespa, sono considerati degli strani animali. Non la pensano così quelli che invece sanno bene che entrare è quasi diventato un privilegio. Prima esisteva addirittura un gettone di presenza, 30 euro ogni ora negli anni d’oro, scesi a 7 euro, e ora a zero. Ma il pubblico non manca quasi mai. Pensionati, casalinghe, giovanotti e ragazze che si scannerebbero per un’inquadratura volante. Così la domenica, se una volta c’era la chiesa, ci sono intere famiglie che traslocano dove si fa tv. Imbellettate, ingioiellate, spesso con abiti improbabili. E per chi non lo sapesse la vita del figurante non è poi così semplice.
Si entra un’ora prima e soltanto con il documento. Si prende posto a sedere, ma prima che la trasmissione parta ci sono due coach di studio che scaldano il pubblico. Pochi i criteri: non smettano mai di applaudire a comando e, soprattutto, per loro deve prevalere l’entusiasmo. “Noi gli diamo la televisione”, spiegano le agenzie specializzate in casting, “loro non credano che sia una passeggiata”. Il coach, per tenere su l’atmosfera, prima che la trasmissione inizi fa cantare il pubblico, chiede chi vuole raccontare una barzelletta e chi mettersi in gioco di fronte agli altri. “Abbiamo bisogno di gente estroversa, sono spettacolo anche loro dentro lo spettacolo. I registi e la produzione non vogliono gente addormentata”.
Ma quanto sono veri gli applausi? Dipende. Poco in genere. Ma anche questa è una delle vecchie polemiche. Il problema è spesso nell’orientamento politico della trasmissione. “In genere siamo noi”, spiegano i coach, “a comandare l’applauso. E quelli spontanei, a parte casi molto particolari, non sono sempre graditi”. L’esempio ce lo porge su un piatto d’argento la cronaca. Lunedì scorso, a Piazzapulita, trasmissione che non è certo su posizioni leghiste, è partito un applauso quando l’eurodeputato della Lega, Gianluca Buonanno, professione provocatore, ha definito i rom “feccia dell’umanità”. Come applaudire a una bestemmia. Ma il pubblico, seppur reclutato e comandato, non ha resistito e si è unito alla provocazione. Lo stesso, a pochi chilometri di distanza, accadeva al Palatino, centro studi Mediaset, dove a Quinta Colonna parlava Giorgia Meloni. Giù applausi a ogni “non possiamo aiutare gli stranieri, vadano a casa loro”.
Giovanni Piazza, 34 anni, disoccupato, vanta centinaia di presenze. Prima partiva dalla Sicilia per raggiungere gli studi di Cologno, e ora si è trasferito definitivamente a Milano, nonostante sia in cerca di una occupazione fissa. “Sono un fan di Barbara D’Urso, adoro vederla lavorare. Se mi annoio? Il contrario, come essere a teatro. Io adoro lei e la seguo. Vederla in studio è un’altra cosa, ci sono gli imprevisti, le tecniche che lei usa. C’è la simpatia. Non me ne vergogno”. Piazza tre volte alla settimana è a Pomeriggio Cinque. Gli chiediamo se lo pagano: “No, mai. L’unica cosa di cui usufruisco è il pullman che dalla stazione della metro di Cascina Gobba ci porta allo studio. È bello il clima che si crea, anche la conoscenza con le star”.
Non chiamateli patetici. Non ci stanno. Per loro anche un’inquadratura di sfuggita rappresenta il momento di gloria al quale tutti hanno diritto di attingere. Si spaccano la schiena, ma lo fanno con piacere. Spesso vengono redarguiti perché l’applauso spontaneo, almeno in alcune trasmissioni, non è gradito. Il pubblico deve rientrare più o meno nella natura politica della trasmissione. Tutto falso? No, non tutto. Molto però è sceneggiato, provato, concordato. Mago assoluto è Bruno Vespa, tra i primi a capire quanto fosse determinante la presenza del pubblico, ma che comunque rappresenti quello che lui fa e che non può essere definita una televisione d’opposizione. Assolutamente.
Chi la fa e l’ha sempre fatta, invece, è Michele Santoro. E anche lui ha sempre avuto pubblico in studio. Ma a Servizio Pubblico non c’è niente di programmato. Basta iscriversi attraverso il sito e se c’è posto chi vuole entra. Ma come è palese l’organizzazione, è palese anche l’orientamento del pubblico: difficile che un elettore della Lega o di Forza Italia chieda di partecipare a una trasmissione condotta da Santoro. Criterio che ha fatto suo (Buonanno a parte) Corrado Formigli, con l’handicap che la sua trasmissione viene registrata in uno studio a Roma nord, oltre Saxa Rubra, praticamente irraggiungibile per chi non conosce la zona.
Poi, ultima nota, sempre nella metamorfosi, ci sono quelli che cercano la visibilità. È ancora Freccero che lo spiega: “Dalle trasmissioni di Piero Chiambretti sono passate molte ragazze che hanno poi fatto a loro volta la tv. Prima ancora era successo con Gianni Boncompagni o Renzo Arbore. Le ragazze pon pon di Domenica In targata Boncompagni erano la scenografia fondamentale, lo stesso furono le ragazze Coccodè che si inventò Arbore a Indietro tutta. L’argomento è vasto, mi ripeto: un romanzo”.
È un’agenzia, la Casting snc, quella che si occupa di fornire il pubblico alle trasmissioni d’intrattenimento di Mediaset: da Domenica Li-ve all’Isola dei Famosi, Le Iene, Striscia la Notizia. Altro genere ancora, altri personaggi. Tifosi, in alcuni casi. Vere e proprie comparse, invece, come quelle di Forum. Non sono una professione, ma tante messe insieme. Ma è importante il pubblico per la riuscita di un programma?
A questa domanda risponde Michele Santoro. “Dipende”, dice. “Io ne ho fatte col pubblico e senza pubblico. Non era quella la ricetta del successo. Ma è un elemento importante. Purché siano veri”.