La Stampa, 9 marzo 2015
Wall Street, perché il Nasdaq è tornato sopra 5.000 punti dopo 15 anni? Il crollo e la resurrezione dell’indice sono il simbolo delle due qualità più importanti dell’economia Usa: la capacità di accettare il fallimento e la sconfitta come aspetti naturali del capitalismo e la supremazia tecnologica
Meglio tardi che mai. Lunedì scorso l’industria della tecnologia americana ha scalato un picco storico, rimarginando una ferita enorme per i mercati e confermando il suo ruolo come uno dei motori dell’economia mondiale: il Nasdaq, l’indice di borsa che ospita Apple, Microsoft, Google e Facebook, è ritornato al di sopra dei 5000 punti per la prima volta in quasi 15 anni.
Sembra un numero come un altro, e non è nemmeno un record, ma attenzione alle date. La prima e ultima volta che il Nasdaq si è affacciato sopra i 5000 eravamo nel 2000, un anno famoso e famigerato per chi investe in tecnologia.
Dopo due bellissimi giorni passati al di sopra dei 5000 punti – il 9 e il 10 marzo del 2000, il Nasdaq si tuffò di testa nel mare della crisi. La bolla dell’Internet, gonfiata dalle idee ridicole di banchieri e imprenditori e dalla cupidigia degli investitori, scoppiò in un instante.
Lo schianto del Nasdaq fu spettacolare. Alla fine dell’anno, aveva già perso più del 50%, distrutto dalla decomposizione di società che non avevano mai avuto utili, strategie o futuro. Milioni d’investitori persero miliardi di dollari nel giro di pochi mesi. I barbieri, tassisti e camerieri che avevano sognato di diventare ricchi investendo in azioni quali pets.com, che in teoria vendeva cibo per cani via Internet, e theglobe.com, il «nonno» di Facebok, si ritrovarono poveri, sconfitti e depressi.
Il Nasdaq che all’apice del suo successo si vendeva agli investitori con lo slogan: «la borsa della prossima generazione», divenne il simbolo dell’arroganza, avidità e dabbenaggine di una generazione.
All’epoca scrivevo di finanza da Londra e le notizie del caos del Nasdaq sembravano dispacci da un lontano fronte di guerra. Non riuscii a capire l’importanza di quel momento fino a quando un veterano della City mi disse: «Questo è il nostro crac del 1929. Niente sarà più lo stesso».
I quindici anni di attesa non sono un caso. Altri indici importanti, come il Dow Jones e il Ftse 100 hanno già raggiunto nuovi record. Ma le brutte memorie del crollo del 2000 non si dimenticano facilmente e il Nasdaq è ancora a più dell’1% dal primato del 2000.
Per eradicare la follia collettiva – una condizione che affligge i mercati da sempre – bisogna aspettare che arrivi una nuova leva di trader e banchieri, d’imprenditori e regolatori. Nel 2000, Google aveva tre anni, Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, ne aveva 16. Apple era già adulta ma in crisi profonda.
Nessuna industria è cambiata in maniera più drammatica e radicale della information technology in America negli ultimi quindici anni. Ed è qui che incominciano le buone notizie.
Il crollo e resurrezione del Nasdaq sono il simbolo delle due qualità più importanti dell’economia Usa, che la distinguono dall’Europa, il Medio Oriente e l’Asia. La prima è la capacità di accettare il fallimento e la sconfitta come aspetti naturali del capitalismo. E la seconda – diretta conseguenza della prima – è la supremazia tecnologica, spinta da un ecosistema di imprenditori, università e investitori che non hanno paura di sbagliare.
Come è possibile che la stragrande maggioranza delle innovazioni tecnologiche dell’ultimo secolo – da Internet ai motori di ricerca, dal cellulare al «cloud», la nuvola che aggrega tutti i dati – siano venute dagli Stati Uniti?
Le statistiche dimostrano che ci sono Paesi più «intelligenti», con migliori sistemi educativi, dove si vive, mangia e beve meglio. Con meno obesità e tensioni razziali. Con pensioni e sanità più giuste e tasse più basse.
Eppure, Steve Jobs e Zuckerberg, Larry Page e Sergey Brin di Google, Larry Ellison di Oracle e tanti altri provengono tutti da un solo Paese (sono tutti immigrati o figli di immigrati ma quella è un’altra storia…). Ci sono, ovviamente, società di tecnologia in altri Paesi ma quante sono frutto di idee originali? Sap in Germania è simile a Oracle, Samsung in Corea è il rivale di Apple, Baidu è il «Google cinese».
Come le piante, i geni della tecnologia hanno bisogno di un clima ideale per crescere e dare frutto. Il sistema americano ha dimostrato di essere l’habitat perfetto. Non si sa se sia un caso fortunato o il prodotto di anni di pianificazione. Se un sistema capitalistico che agli Europei e agli asiatici spesso sembra, ingiusto, sfrenato e senza regole sia la condizione necessaria e sufficiente per la nascita di giganti dell’IT.
Quel che è certo e che gli Usa non condannano i perdenti. Andare in bancarotta in America non è la fine di una carriera, come in Europa. E nemmeno un’onta personale, come in Asia, dove «perdere la faccia» è quasi un crimine – basta guardare alle conferenze stampa-harakiri dei dirigenti di azienda in Giappone.
In America gli imprenditori capaci, seri e tosti possono provarci un’altra volta. Chiudere le porte in un posto e ricominciare daccapo altrove. Nel 2004, Evan Williams aveva lanciato Odeo, una società che produceva «podcasts», completamente distrutta dal lancio di «iTunes» da parte di Apple. Due anni dopo, Williams divenne uno dei fondatori di Twitter. Che cosa ne sarebbe stato di Twitter se Williams fosse andato a lavorare in banca dopo il fallimento di Odeo? Il business americano pullula di storie di questo tipo, sin dai tempi di Henry Ford e Thomas Edison.
«Non si può spiegare. È come il barbecue: la salsa è segreta», mi ha detto un banchiere di Silicon Valley. Sarà pure vero, ma alcuni ingredienti sono ben noti: un mondo finanziario pieno di società di venture capital che vogliono investire capital, un sistema legale in cui la bancarotta è veloce e una società che giudica meno e applaude di più.
È come se il sistema americano avesse adottato, e adattato, le parole di Francesco De Gregori ne «La leva calcistica della classe ’68». «Nino non aver paura a sbagliare un calcio di rigore/non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore».
L’imprenditore si vede dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia.