la Repubblica, 6 marzo 2015
«Dopo trentacinque anni di chiusura, tre decenni e mezzo in cui il mondo ci ha considerati un popolo di second’ordine, vogliamo tutti che l’isolamento abbia fine». Parla la gente di Teheran, quella che sogna un’intesa sul nucleare per tornare a una vita normale. Ma gli ultraconservatori, i pasdaran e chi ha lucrato sulle sanzioni non ne vogliono sapere
«Anche noi dobbiamo ripartire da zero», dice uno studente che tiene per mano la fidanzata. È venuto a visitare una mostra speciale, che pochi si aspetterebbero di vedere al Museo di arte contemporanea di Teheran, inaugurata dallo stesso ministro della Cultura Ali Jannati (figlio di un ayatollah ultraconservatore, lui invece un liberale). Una personale di Otto Piene, che era passata anche dal Guggenheim. Già sulle scale siamo accolti da una spettacolare corona di inflatables, sculture d’aria colorate che assomigliano a tronchi d’albero sormontati da immensi fiori a stella. Piene è un pittore tedesco del famoso Gruppo Zero. Negli anni del dopoguerra in Germania, come in altri paesi d’Europa, gli artisti sentivano un’urgenza di rinnovamento, volevano ripartire da zero, ma avevano anche fiducia nel futuro. Sentimenti che oggi toccano un nervo sensibile dei giovani iraniani che aspettano col fiato sospeso la conclusione dei negoziati sul nucleare a Ginevra.
“Arcobaleno” è intitolata la mostra, perché Piene dipingeva arcobaleni in serie. E chi visita la mostra li vede come un simbolo di riconciliazione. «Sogno un mondo più largo – dovrei forse desiderarne uno più stretto?», è una citazione di Otto Piene nella prima pagina del catalogo. “Conto alla rovescia per il domani”, è un altro titolo. Ginevra, dicono tutti, segnerà la svolta decisiva per il futuro del paese: «O diventiamo un paese normale, di cui il resto del mondo ha rispetto e fiducia oppure che cosa?», si chiede lo studente. Nessuno riesce a figurarsi quale sarebbe l’alternativa.
«Dopo trentacinque anni di chiusura, tre decenni e mezzo in cui il mondo ci ha considerati un popolo di second’ordine, vogliamo tutti che l’isolamento abbia fine», mi dice un funzionario del ministero degli Esteri. Anche la pressione economica ha fatto la sua parte: il crollo dei prezzi del petrolio, che è calcolato a 130 dollari nella legge di bilancio ed è sceso a 60, è stato l’ultimo colpo. Poi ci sono i cento miliardi di dollari congelati all’estero per via delle sanzioni sulle transazioni finanziarie, mentre i guadagni fatti quando il petrolio era a 150 dollari sono spariti (si parla di un buco di 6 miliardi di dollari negli ultimi anni di Ahmadinejad e ieri il ministro dell’Interno Rahmani Fazli ha detto che «denaro sporco» sta entrando nella politica per manovrarla). «Nessun paese può crescere economicamente quando è isolato», ha ammonito il presidente Rouhani.
Ma c’è anche chi vuole il fallimento del negoziato: non solo Netanyahu e pezzi del Congresso a Washington, sono in tanti anche qui. «In questo momento tacciono, nessuno vuol prendersi la responsabilità di un fallimento dopo che il Leader Supremo Khamenei ha dato esplicito sostegno al negoziato: semplicemente aspettano il momento opportuno per alzare la voce», avverte un analista che preferisce rimanere anonimo. Sono gli ultraconservatori, sono i pasdaran (almeno in parte), sono tutti coloro che non solo perderanno i benefici portati dalle sanzioni, che hanno consentito di accumulare enormi ricchezze. E per molti è in gioco anche la sopravvivenza politica. «Se si farà l’accordo – dice un professore universitario – i conservatori scompariranno nelle due elezioni importanti che ci saranno a primavera: non saranno rieletti al Majlis, il Parlamento dove oggi hanno la maggioranza, e, cosa forse ancora più pericolosa per loro, all’Assemblea degli esperti, gli 86 eletti che stanno in carica otto anni e hanno il compito di nominare il Leader Supremo». Va detto che Khamenei è più in salute di quanto sia stato detto, anche se in questi giorni è di nuovo sotto osservazione in ospedale dopo un’operazione alla prostata, ma comunque si avvicina agli 80 anni.
Al discorso di Netanyahu il governo ha reagito con ostentata pacatezza: «Il mondo vede con soddisfazione i progressi fatti nel negoziato e solo un governo che aggredisce e occupa non è contento», ha detto il presidente Rouhani. «Il negoziato prosegue, e che Obama avesse difficoltà col Congresso si sapeva. Il governo sottolinea lo sforzo enorme fatto dall’Iran. È vero che i 5+1 riconosceranno il diritto dell’Iran di arricchire l’uranio, il programma nucleare è considerato da sempre lo strumento per entrare nella modernità, ed essere privati di un diritto garantito a tutti i firmatari del Trattato di Non Proliferazione sarebbe stato un affronto inaccettabile. Ma le condizioni saranno durissime: riduzioni drastiche, chiusure o trasformazioni di impianti, ispezioni ad libitum non annunciate dell’Aiea. Il tutto almeno per dieci anni – un numero «a due cifre», come ha detto Obama. Tra dieci anni la leadership presumibilmente sarà cambiata – sono tutti piuttosto anziani – e il nucleare non sarà più al centro dell’orgoglio nazionale iraniano. «Abbiamo dato prova di tanta buona volontà. Se non avessimo fatto uno sforzo così grande non saremmo arrivati dove siamo», ha spiegato il consigliere diplomatico del Leader Ali Velayati al ministro Gentiloni.
Ma se l’accordo si riuscirà a fare o no, è ancora scritto nelle stelle. «Siamo vicini», ha detto Zarif dalla Svizzera, ma è come il cubo di Rubik: nulla è a posto finché tutto non è a posto. Si prevede la firma di un accordo politico entro marzo, poi seguirà un piano d’azione tecnico da firmare entro il 30 giugno. Il 9 arrivano di nuovo gli ispettori dell’Aiea, che vogliono soprattutto indagare sul passato, ma Teheran dice che la documentazione nelle loro mani è un falso.
Per chi si oppone all’accordo, qui come a Washington, è facile far leva su 35 anni di alienazione traumatica tra Iran e Stati Uniti. Riabilitare l’Iran, consentire alla sua reintegrazione nella comunità internazionale è un passo enorme per Obama e per Kerry. Da due decenni i due paesi si considerano rispettivamente il Grande Satana e l’Asse del Male. Non c’è film americano che non lo provi, non c’è manifestazione a Teheran senza gli slogan “morte all’America”. Ma tutti oggi sanno anche che in gioco c’è molto di più, per l’Iran e per il resto del mondo.