La Stampa, 3 marzo 2015
«È stato l’inferno e ora è il deserto. Non siamo più uomini, siamo topi». Ucraina, parlano i disperati del Donbass, che per otto mesi hanno vissuto sottoterra e ora che sono usciti non hanno più paura ma fame
«È stato l’inferno e ora è il deserto. Non siamo più uomini, siamo topi». Quando riaprono le botole dei podval, dei rifugi sottoterra dove hanno perso il conto delle settimane mentre fuori esplodevano bombe a grappolo, missili e mortai, i cittadini di Debaltsevo piangono, imprecano. Poi si guardano indietro. Sanno che dovranno tornare in quella stessa cantina «perché qui fuori non c’è più niente, non c’è una casa qui a Debaltsevo dove tornare». Negli specchi non si riconoscono: sono corpi grigi a cui è mancata acqua, aria, cibo; pensano di assomigliare a quello che resta della città, dove rimangono in piedi solo facciate incenerite di palazzi, tetti sfiancati, macerie, cani randagi affamati che una volta avevano un padrone e che ora perlustrano la città in cerca di un osso come le divise della Dnr cercano mine e missili inesplosi. A piazza Lenin c’è una fila per il the, una per il salame, una per il generatore di elettricità dove caricare cellulari.
«Qui c’era la mia cucina, questo era il mio salotto. La tv era nell’angolo, qui la mia poltrona. Questa era la mia vita ed era una vita felice». Nadia, 65 anni, mostra un cumulo di macerie al piano più alto di un edificio della periferia di Debaltesavo dove ha abitato per 30 anni. «È successo il giorno dell’annuncio della tregua di febbraio». Era stato dichiarato lo stop ai combattimenti da Kiev e Mosca e proprio quel giorno il suo palazzo è stato colpito. Nadia ha perso tutto e oggi è tornata qui a vedere cosa rimaneva del niente che le ha lasciato la guerra.
Otto mesi sottoterra
I cittadini sono rimasti sotto terra otto mesi. Ora che sono usciti non hanno più paura ma fame. Sono grati alle conserve e al cibo in scatola dei volontari. «Nei rifugi non avevamo niente da fare se non imparare a distinguere i colpi d’artiglieria, di bombe e missili. Alcuni di noi sono impazziti per sempre». Quel che rimane di Debaltesavo sono centinaia di anziani in fila e in lacrime per gli aiuti umanitari: coperte, vestiti, candele. Ha riaperto un unico spaccio per la verdura, ma nessuno riceve la pensione da mesi: «Come pensano che possiamo pagare questi cetrioli?» chiede Ljuba a Masha.
Seimila vittime
Seimila morti, distruzione e disperazione: per Zeid Raad al Hussein, commisario Onu, in Ucraina è stata «spietata devastazione». Ieri in conference call Hollande, Merkel, Putin e Poroshenko hanno denunciato continue violazioni della tregua da parte di entrambi gli schieramenti. E il segretario generale della Nato, Jens Stoltenerg, ha lanciato un appello a Mosca affinchè ritiri le truppe. «La tregua regge – ha detto -, ma è molto fragile». Questa settimana Matteo Renzi farà sponda ai due lati della scacchiera, mercoledì a Kiev, giovedì a Mosca, per strappare accordi di pace alle due città, che giurano di aver ritirato da questo territorio l’artiglieria pesante e di mantenere fede agli accordi siglati giorni fa lontano da Debalzevo, dove le esplosioni per sminare i campi sono continue. Nei rifugi tutti sanno che prima o poi dovranno tornarci: tra tre giorni, sono convinti, qualche battaglione ucraino tenterà di riprendersi questa roccaforte perduta. Quei soldati l’hanno promesso prima di andarsene.
«Kiev o Mosca, è lo stesso»
«Ma quale Ucraina unita, questo deserto che non serve più a nessuno chi lo ricostruirà? Non è rimasto niente, noi non serviamo più a nessuno». Né da una parte né dall’altra: «Non ci interessava il presidente corrotto di prima, non ci interessa l’oligarca di cioccolato ora, volevamo solo vivere in pace, in Russia o in Ucraina, ora viviamo sottoterra, non siamo più uomini, siamo topi». La babushka che piange ha 85 anni, suo figlio, insieme al resto della sua famiglia, è morto durante l’assedio. I suoi nuovi parenti sono quelli nel rifugio più grande del Paese che ospita decine di famiglie nel vecchio edificio dell’amministrazione.
Lungo la strada intorno a Debaltsevo le trincee abbandonate dai soldati ucraini sono già mausolei della disfatta: per decine di metri le divise di Kiev si sono lasciate indietro caramelle, latte condensato, fotografie, vestiti, libri, stivali spaiati che rimangono sotto l’ultimo ghiaccio invernale insieme a missili grad, scatole di proiettili, carri armati bruciati, carcasse di pick up, lanciarazzi svuotati e una vecchia bandiera bucata gialloblu.