Corriere della Sera, 3 marzo 2015
Breve storia del rapporto Usa-Israele, tra baci, silenzi e ammaccature. Dal «vaffa» di Baker all’urlo di Clinton: «Chi si credono di essere?»
Dieci settimane al freddo di Washington e al gelo di Franklin Delano Roosevelt. Nel dicembre del 1941 David Ben-Gurion affitta una suite di due stanze all’hotel Ambassador dove aspetta una telefonata: ha chiesto al presidente americano un appuntamento (gli basta un quarto d’ora, assicura) per promuovere la causa dello Stato ebraico. Quella convocazione non arriva mai, eppure quando il 14 maggio del 1948 Ben-Gurion dichiara la nascita di Israele, gli Stati Uniti sono la prima nazione a riconoscerlo. Undici minuti dopo.
Da allora la relazione speciale non si è mai interrotta. Ha sopportato qualche ammaccatura diplomatica, ha vissuto i momenti di silenzio e gli incontri imbronciati, ha superato queste crisi e – prevedono gli analisti – supererà anche quella tra Benjamin Netanyahu e Barack Obama. Perché l’attuale leader americano – fa notare Chemi Shalev sul quotidiano Haaretz – non è tra i più maldisposti come vorrebbero presentarlo gli assistenti del primo ministro.
George Bush padre ha torchiato i governi israeliani con più aggressività – e ritorsioni ben più concrete – di Susan Rice, la consigliera per la Sicurezza nazionale di Obama, che ha definito «distruttiva per i nostri legami» la visita di Netanyahu. Nel 1991 pretende che Yitzhak Shamir fermi le costruzioni nelle colonie e minaccia di bloccare i 10 miliardi di dollari in aiuti. Durante una conferenza stampa alla Casa Bianca, si lamenta di quanto sia influente la lobby ebraica e poco dopo calcola che gli Stati Uniti donano a Israele «l’equivalente di 1.000 dollari per ogni cittadino». Una scarsa empatia verso l’alleato mediorientale, riassunta da James Baker, il suo segretario di Stato: «Quando gli israeliani saranno pronti a parlare seriamente di pace, possono telefonare alla Casa Bianca. Il numero è 001-202-456-1414». Un’avversione ancor più sintetizzata da Baker in una conversazione privata: «Vaff... gli ebrei, tanto non votano per noi». Ed è una profezia che si autoavvera: alle elezioni del 1992 Bill Clinton conquista il 78 per cento tra gli ebrei americani, Bush solo il 15 per cento, il risultato peggiore per un repubblicano negli ultimi ventotto anni.
Gli stalli diplomatici non nascono solo da posizioni strategiche differenti. Clinton non è riuscito a ricreare con Netanyahu la sintonia che aveva con Yitzhak Rabin e che facilitò gli accordi di Oslo nel 1994. Considerava il primo ministro israeliano – allora al suo primo mandato – arrogante e se poteva evitava di incontrarlo. Quando Netanyahu viene ricevuto per la prima volta alla Casa Bianca nel 1996, Clinton lascia la stanza ed esclama agli assistenti: «Chi si crede di essere, chi c... è la superpotenza qui?».
È la lezione che Ronald Reagan decide di impartire a Menachem Begin. Nel 1981 lo punisce per aver bombardato – senza avvertire gli americani – il reattore nucleare di Osirak in Iraq: ordina di fermare la consegna di nuovi jet all’aviazione israeliana e gli Stati Uniti condannano alle Nazioni Unite il raid contro Saddam Hussein. «La decisione di umiliare pubblicamente un nostro tradizionale alleato – commenta allora il conservatore William Safire sul New York Times – non ci ha dato un nuovo amico tra gli arabi e ha distrutto quella fiducia necessaria per spingere Israele a prendere rischi per arrivare alla pace». Le parole scelte da Begin sono ben più dure di quelle scritte da Safire, quando per rappresaglia convoca l’ambasciatore americano Samuel Lewis: «Che espressione sarebbe: punire Israele? Siamo un vostro vassallo? Siamo una repubblica delle banane? Siamo degli adolescenti che se non si comportano bene vengono schiaffeggiati? Mi lasci dire da chi è composto il mio governo: è gente che è cresciuta nella resistenza, gente che ha combattuto e sofferto. Non ci spaventerete con le vostre minacce».
I tredici giorni di negoziati nel settembre del 1978 a Camp David cominciano con una preghiera comune voluta da Rosalynn, la moglie del presidente Jimmy Carter, e finiscono con l’accordo di pace tra Israele e l’Egitto. In mezzo urla, valigie fatte e disfatte, un torneo di scacchi tra Begin e Zbigniew Brzezinski, consigliere di Carter. Il premier israeliano vince 3 partite su 5, non gli basta per sciogliere la diffidenza: arriva a definire Camp David «un campo di concentramento de luxe». Sa però che Israele ha bisogno degli Stati Uniti, stringerà la mano ad Anwar Sadat.