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 2015  marzo 02 Lunedì calendario

L’India ha superato la Cina come Pil, ma col trucco. La guerra d’Asia ora si combatte con la statistica

Il suo contributo in contanti alla crescita del Pil, il primo ministro indiano Narendra Modi lo ha dato con 43 milioni di rupie (692 mila dollari): ricavati vendendo all’asta il vestito indossato a gennaio durante la visita di Stato di Barack Obama a New Delhi. In apparenza un gessato blu: ma viste da vicino le righine erano composte dal nome Narendra Damodardas Modi, ripetuto centinaia di volte sulla stoffa. Costo di sartoria: un milioncino di rupie (16 mila dollari), compreso il tessuto italiano.
La trovata autopromozionale è stata oggetto di critiche da parte dell’opposizione e della stampa indiana: «megalomane», «narcisista», «si presenta agli elettori come semplice “sevak”, servitore del popolo, ma poi si comporta da re». Il premier è uscito dall’angolo mettendo il gessato all’asta e promettendo di donare il ricavato per la pulizia del Gange, gravemente inquinato. I 43 milioni di rupie sono stati sborsati da Hitesh Patel, industriale dei diamanti: «Esporremo il vestito in azienda e sarà fonte di ispirazione». I maligni dicono che il «gessato Modi» servirà anche da spaventapasseri, per tenere alla larga gli agenti del fisco che in passato hanno perquisito gli uffici della Dharmanandan Diamonds per il sospetto che Patel avesse dimenticato di pagare le tasse.
La storiella è un condensato di alcuni dei mali che affliggono l’India: populismo dei suoi leader, culto della personalità, corruzione, evasione fiscale e anche inquinamento ambientale.
Il gioco dei numeri
Ma ora c’è la questione del Prodotto interno lordo. Ha cominciato Goldman Sachs prevedendo che nel 2016 la crescita indiana, in salita al 6,9%, sorpasserà quella della Cina, in discesa al 6,8%. Sono seguite le conferme di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale: il tasso di crescita della Cina, primatista mondiale negli ultimi trent’anni, sarà superato in un paio d’anni da quello dell’India. Il 9 febbraio la sorpresa: l’ufficio statistiche di New Delhi ha rivisto i criteri di valutazione del Pil e ha annunciato che nell’ultimo trimestre del 2014 l’economia indiana ha aggiunto un 7,5% rispetto al 7,3% cinese.
Secondo questi nuovi conti l’anno finanziario, che in India termina il 31 marzo, registrerà un +7,4%, come il 2014 dichiarato da Pechino. Tutti gli analisti, compresi quelli indiani, avevano previsto un 5,5-5,8.
Il capo dell’ufficio statistico ha spiegato la rivalutazione del Pil dicendo che è in corso una modernizzazione nell’economia e i nuovi conti sono molto più vicini a coglierne la realtà. Dovremo abituarci a guardare all’India come alla nuova locomotiva della crescita globale?
Serve cautela. «Non voglio dire niente su questi numeri fintanto che non li comprendiamo meglio», ha detto il governatore della Banca centrale Raghuram Rajan.
Il governatore sa che gran parte della ricchezza del suo Paese è prodotta da individui e piccole imprese che non pagano le tasse: una massa di venditori ambulanti, barbieri di strada senza bottega, meccanici di moto e biciclette rappresentano ancora i due terzi della forza lavoro non contadina. Il Pil dell’India è valutato a 2,1 trilioni di dollari, mentre quello cinese 10,7; il Pil pro capite indiano è di 5.500 dollari rispetto agli 11.900 dei cinesi.
La modernizzazione per centinaia di milioni di lavoratori in India sembra lontana anni luce. E i fondamentali dell’economia di New Delhi, negli ultimi mesi, erano tutt’altro che esaltanti: bassa crescita del credito, scarsi investimenti, produzione industriale debole. Anche il settore It (Information technology) che è un’eccellenza indiana non è in grado da solo di dare una risposta ai circa 110 milioni di giovani indiani che cercheranno lavoro nei prossimi anni. Resta il fatto che se anche il sorpasso nel tasso di crescita sulla Cina per ora è solo nella rivalutazione architettata dall’ufficio statistico, l’India ha un enorme potenziale.
Potenziale
A cominciare dalla sua demografia. È un Paese giovane: con 600 milioni di abitanti sotto i 25 anni su una popolazione di 1,25 miliardi, mentre la Cina non potrà più essere la «fabbrica del mondo» visto che tra un paio di decenni un terzo della popolazione avrà più di 60 anni (eredità della politica del figlio unico che ora Pechino sta cercando di abbandonare).
Narendra Modi è stato eletto l’anno scorso proprio per liberare finalmente questa forza inespressa, come fece Deng Xiaoping a Pechino all’inizio degli anni Ottanta. Nei primi mesi ci sono stati molti annunci riformisti e qualche fatto: nelle infrastrutture ferroviarie e i grandi progetti di costruzione i capitali stranieri possono raggiungere il 100% dell’investimento; nelle assicurazioni e nell’industria per la difesa il tetto degli investimenti diretti dall’estero è stato alzato dal 26 al 49%; sono state messe sul mercato quote di aziende statali e banche; è stata promessa una legislazione semplificata per l’acquisizione di terreni a uso industriale e abitativo; Modi ha promesso 2 mila miliardi di dollari per costruire 20 milioni di case popolari entro il 2022 e tirare fuori dagli slum 170 milioni di persone.
Il governo può contare anche sul bonus petrolifero: con il crollo del prezzo del barile l’India sta risparmiando almeno 50 miliardi di dollari, quasi un punto di Pil. Probabilmente, quello che serve di più a Modi oggi è un modesto realismo: come ha insegnato la Cina, la crescita oltre che rapida dev’essere sostenibile.