Libero, 27 febbraio 2015
I giudici si sentono condizionati? Allora questa riforma forse serve a qualcosa. La norma (blanda) sulla responsabilità civile è osteggiata dalle toghe: «Noi meno sereni». Da oggi la casta più potente ha un po’ di timore. Magari così sarà più prudente
Nel giorno in cui la magistratura lamentava che «il problema è un altro», come per esempio la lotta alla corruzione, il governo inaspriva il reato di corruzione, portandolo a un massimo di 10 anni di carcere. Nel giorno in cui la magistratura pure lamentava che «il problema è un altro», come per esempio i tempi della giustizia, si apprendeva che Claudio Scajola e Gianni De Gennaro sono stati indagati per la revoca della scorta a Marco Biagi: ma che l’ipotesi di reato – cooperazione colposa in omicidio colposo – è comunque già prescritta, e insomma i pm si sono svegliati tardi.
Nel giorno in cui la magistratura patisce il varo della nuova legge sulla responsabilità civile dei giudici – per blanda che sia – fioccano le lagnanze perché la nuova normativa incuterebbe «un maggior timore» nei magistrati e porterebbe a un loro «condizionamento»: non capendo, i magistrati, che è proprio quello che si vorrebbe ottenere.
Del possibile «condizionamento» ha per esempio parlato il procuratore generale di Torino Marcello Maddalena, mentre il segretario di Magistratura democratica Anna Canepa ha paventato uno scenario con «giudici meno sereni»: ma è una questione di termini. Basta sostituire “meno sereni” e “condizionati” con “più responsabilizzati” e tutto va a posto, sempre che si sia d’accordo sul punto cardine: cioè che i magistrati, a oggi, non sono responsabilizzati per niente.
Dal loro immenso e per certi aspetti spaventoso potere, quello di togliere la libertà agli altri e di condizionare intere vite, non discende nessuna diretta conseguenza che li riguardi. Non hanno niente da temere da propri errori, dimenticanze, sciatterie e superficialità. La responsabilità civile dei giudici sulla carta esisteva già, è vero, così come esisteva la rivalsa dello Stato nei loro confronti in caso di condanna a risarcire: ma la casistica ridicola – sette sentenze in 27 anni – non ha bisogno di commenti. Anche perché, frattanto, sono fioccate infinite cause per ingiusta detenzione o per irragionevole durata del processo, sia penale che civile: tutte vicende che in fin dei conti originano da comportamenti di magistrati ma che ne hanno sempre estromesso ogni responsabilità diretta. Come a dire che chi sbaglia non paga, o, al limite, ma proprio al limite, che pagheranno altri: per esempio lo Stato, cioè i cittadini. Quattro giorni fa, per esempio, si apprendeva che il ministero dell’Economia ha pagato 40mila euro per la galera ingiusta patita da Vittorio Emanuele di Savoia: piacerebbe sapere se il pm che l’incarcerò, Henry John Woodcock, abbia qualche responsabilità “dolosa” oppure abbia sbagliato in buona fede; ed è normale chiedersi se un maggior “condizionamento” gli avrebbe suggerito maggiore prudenza.
Che gli arresti facili possano tradursi in popolarità o in più rapide carriere – dentro o fuori la magistratura – non lo scopriamo certo oggi. Quando Antonio Di Pietro era al suo acme, nel 1992-93, le domande per il concorso in magistratura registrarono un boom: vi è da chiedersi su quale base equilibrata e sofferta fosse fondata tanta motivazione interiore, una motivazione, cioè, che dovrebbe contraddistinguere l’equilibrio necessario per giudicare.
Ne scrisse meglio di chiunque altro, nel 1986, Leonardo Sciascia sulla rivista Il giudice. Da leggere e rileggere: «Un giovane esce dall’Università con una laurea in giurisprudenza; si presenta ad un concorso; lo supera svolgendo temi inerenti astrattamente al diritto: e da quel momento entra nella sfera di un potere assolutamente indipendente da ogni altro che sia possibile conseguire attraverso un corso di uguale durata, attraverso un’uguale intelligenza e diligenza di studio, attraverso un concorso superato con uguale quantità di conoscenza dottrinaria e con uguale fatica. Ne viene il problema che un tale potere – il potere di giudicare i propri simili – non può e non deve essere vissuto come potere. La scelta della professione di giudicare dovrebbe avere radice nella repugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare; dovrebbe cioè consistere nell’accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio. Non da questo intendimento i più sono chiamati a scegliere la professione di giudicare. Tanti altri sono gli incentivi, e specialmente in un Paese come il nostro... Quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli». O perlomeno a provarci.