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 2015  febbraio 26 Giovedì calendario

«Papà, non te la prendere, ho deciso, mi dedico alla filosofia». Firmato Karl Marx. Quelle lettere al genitore che lo voleva avvocato, ora pubblicate in Italia da Mimesis

Notte tormentata quella passata dal giovane, che la descrive per via epistolare ai genitori. Notte non di tregenda, ma di ripensamenti, inquietudini e tremori, che dischiudono a una decisione da comunicare all’augusto padre. E qui son problemi... Non così differenti da quelli, praticamente ciclici, che intercorrono da un bel po’ di tempo a questa parte tra genitori e prole. Solo che i protagonisti di questa Lettera al padre (Mimesis, pp. 66, €5,90; a cura di Aurelia Delfino) non sono due «signori qualsiasi», bensì Heinrich Marx (1777-1838) e suo figlio Karl (1818-1883).
E anche se il rapporto non si rivelava facile e le divergenze di vedute erano sostanziose (e spesso pure sostanziali), considerando che la Prussia del XIX secolo (a differenza della Germania odierna) non era esattamente un Paese per giovani, poteva (decisamente) andare peggio. Lo dimostra in primo luogo il fatto che i due (severi e serissimi) uomini si apostrofino dandosi del tu, cosa che indica, per gli standard dei rapporti familiari della borghesia europea primo-ottocentesca, una confidenza inusuale.
L’avvocato Heinrich Marx, figlio del rabbino di Treviri, aveva dovuto convertirsi, dopo una lunga penosa vicenda (e vari tentativi di resistenza), al luteranesimo, altrimenti, come prescriveva la legislazione prussiana, non avrebbe potuto esercitare la professione legale. Ecco perché aveva investito, da vari punti di vista, sul futuro nel suo stesso campo dell’adorato figlio. La decisione (da cui aveva tutta l’aria di non voler recedere) che Marx jr. annunciò a Marx sr. dopo quella nottata insonne di inizio novembre 1837 fu dunque un autentico casus belli.
All’interno del proprio personale «romanzo di formazione» il giovane Marx si trovò così immerso in un duro conflitto («weberiano») tra l’etica della convinzione e quella della responsabilità, e non poteva che soffrire mentre scriveva al genitore che una vocazione irresistibile lo spingeva verso la filosofia e la letteratura, lontano dal diritto. Prove generali, e privatissime, di quel «principio di disobbedienza» di fronte all’autorità che poi trasferirà nel suo pensiero e nella prassi politica. Lo esprime rispettosamente, ma appunto con fermezza, irritando il suo interlocutore che si lamenta del fatto che i doni di intelligenza fuori del comune che il figlio ha ricevuto «dalla natura» non vengano in tal modo messi a buon fine – e di sicuro, nell’opinione paterna, questo non poteva avvenire con gli studi filosofici, assai poco pratici e «professionalizzanti» (come diremmo oggi).
Marx senior (che sta già male, e morirà nel giro di pochi mesi) rimprovera il «fin troppo amato» figlio, con il quale dichiara di essere stato eccessivamente «indulgente», finendo per trasformarsi di fatto in un «complice» di tante decisioni assunte senza avere la «testa sulle spalle». Heinrich si dice apertamente infastidito e rimbrotta duramente Karl, ma si vede quanto bene, in ogni caso, gli voglia; e, alla fin fine, lo si potrebbe considerare un padre significativamente più moderno della media dei suoi tempi.
Marx jr. prevarrà, e a Berlino, studiando le materie preferite, farà il suo ingresso negli ambienti della sinistra hegeliana e del radicalismo (frequentazioni che, verosimilmente, non avrebbe avuto da studente di giurisprudenza). E dalla già sperimentata guerra generazionale passerà così alla lotta di classe...