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 2015  febbraio 25 Mercoledì calendario

La guerra nella Lega, l’implosione di Forza Italia e gli ex An in rissa perenne. Benvenuti nella grande faida del centrodestra

Anche le più recenti ipotesi di riunificazione della destra si sviluppano su due presupposti: il buon patrimonio e il simbolo di Alleanza nazionale, a cui gli eredi del Msi si aggrappano come gli ex democristiani si aggrappavano allo scudocrociato. Sarà magari un tic dell’informazione ma ciò che rimane, dopo due giorni di dibattito, è la cattiveria dedicata sulla Repubblica da Gianfranco Fini a Giorgia Meloni («una gran delusione, la mascotte di Matteo Salvini») e respinta amaramente da Isabella Rauti. Come se nessun dibattito, nell’intero centrodestra, sfuggisse al piccolo regolamento di conti. Maurizio Gasparri segnala che «Fini non ha voti» e Simone Furlan, quello dell’Esercito di Silvio, ha la formidabile sintesi dello stato delle cose: «Fini mi ricorda Fitto». Così, aperto il tafferuglio, dell’ipotesi post-aennina sappiamo che non sarà reducismo e nostalgia, e basta; Fini rimanda al sito Liberadestra.com ed è un invito da noi rilanciato perché si colga a che punto è l’elaborazione di idea del Paese nel centrodestra.
Il resto è conseguente. L’aspetto più concreto della discussione riguarda le alleanze per le regionali, e cioè il tentativo ecumenico di Silvio Berlusconi che vuole andare con Salvini in Veneto e coi centristi di Angelino Alfano in Campania; peccato che i due pretendano l’esclusiva del rapporto e respingano il triangolo (modello primavera-estate ’94) con motivi al passo coi tempi: dalle ultime rilevazioni, Salvini reputa Alfano un «poveraccio» e Alfano reputa Salvini un «maniaco». Intanto, però, non è chiaro chi sarà il candidato leghista, cioè Luca Zaia successore di sé stesso o il sindaco di Verona, Flavio Tosi, che considera arrivato il suo momento. Salvini, secondo una dialettica consolidata, minaccia Tosi di espulsione ed è inutile cercare il punto nel quale la visione politica fa attrito: è soltanto una sfida sul ruolo che i contendenti intendono ricoprire, e così è impossibile rifarsi alle sconclusionate ma non banali dispute ventennali fra Lega lombarda e Liga veneta, quando Franco Rocchetta accusava Umberto Bossi di neocentralismo, e Milano faceva repulsa come Roma. Anche lì scorreva il sangue: a Rocchetta e a tanti altri toccò di andarsene a sognare la secessione in cima al campanile di San Marco o su cingolati d’emergenza. Lo scontro Salvini-Tosi in fondo non è così dissimile da quello fra Berlusconi e Fitto, con partecipazione di Renato Brunetta: gli ultimi due da sempre contrari al patto del Nazareno per un anno nel cuore del Principale; e ora che nel cuore non è più, Brunetta è diventato il comandante in capo e Fitto il traditore sommo. Brunetta criticava senza discutere, a differenza di Fitto, la gerarchia e il metodo di selezione nel partito: la differenza è tutta qui.
Intanto si leggono affondo spietati con Matteo Renzi che intende toccare Rai e scuola, e cioè il cuore della riforma culturale – diciamo così – al tempo in cui Berlusconi aveva in testa un’Italia diversa. Adesso l’impressione è che ci si muova giusto per ricacciare la palla al di là della rete: a ottobre fu presentato il Dipartimento libertà civili e diritti umani per guida di Mara Carfagna, e non se ne è più avuta notizia. Proposte? Iniziative? Boh. Niente neanche sul sito di Forza Italia in cui troneggia il tabellone di «nove anni di governo», rivendicazione orgogliosa delle migliori intenzioni. Sarebbe perfetta come lapide sulla collaborazione con Renzi, da cui Berlusconi s’è ritirato offeso dallo sgarbo nell’elezione del presidente della Repubblica: anche qui il progetto se c’è non si vede, sovrastato dall’elementare tattica quotidiana e dalle rancorose relazioni, che poi sono l’unico segno di vita nel partito: cioè la faida.