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 2015  febbraio 25 Mercoledì calendario

È realtà la mano bionica guidata dalla mente. Per la prima volta una protesi robotica è stata allacciata ai muscoli di un braccio lesionato. L’intervento è stato effettuato in Austria su tre pazienti grazie a una nuova tecnica di impianto sviluppata dal gruppo del chirurgo Oskar Aszmann in collaborazione con il bioingegnere italiano Dario Farina

Le ha cucite un chirurgo plastico, biologo, filosofo, le mani robotiche a tre pazienti che ora le potranno comandare con il pensiero. Cinquanta anni, professore dell’università di Vienna, Oscar Aszmann è riuscito ad “abbottonare” gli arti grazie al progetto dell’italiano Dario Farina, direttore del dipartimento di Ingegneria della neuroriabilitazione dell’ateneo di Gottingen. I pazienti sono entrati in sala operatoria tra il 2011 e il 2014 e ora i risultati degli interventi sono stati pubblicati sulla rivista scientifica “Lancet”. Protesi robotiche che riescono a muoversi e a piegarsi grazie all’impulso del cervello e ai sensori che sono rimasti dopo gli incidenti che hanno reciso le mani dei pazienti, sottoposti a questi primi interventi sperimentali. Senza precedenti al mondo come assicura l’équipe.
L’ALLENAMENTO
«Un lavoro particolarmente complesso – ha commentato il chirurgo dopo le prime operazioni – sembra quello dell’elettricista perché riannodiamo i nervi ma, purtroppo, non è così. Le fibre nervose non sono riconoscibili perché blu o verdi. I “cavi”, diciamo le fibre nervose che sono intorno alla punta del pollice e arrivano fino al cervello, hanno un diametro medio di circa 20 micron. Parliamo di materiale quasi invisibile e le fibre, lungo il percorso, si intrecciano in modo particolarmente intricato. Il mio compito principale non è quello, dunque, di cucire i nervi. Questo è solo la fine di un lungo processo cognitivo». Proprio sul “comando” del pensiero si dilungano i ricercatori per spiegare, oltre all’aspetto tecnico, quello rivoluzionario della tecnica. «Una parte importante del mio lavoro – è sempre Aszmann a parlare – si basa sul piano cognitivo. Che serve in sala ma anche durante la riabilitazione».
L’opera di ricostruzione, dunque, passa attraverso diverse fasi: da quella finalizzata alla captazione dei segnali nervosi sopravvissuti all’incidente che ha reciso l’arto, all’allenamento mentale (training cognitivo) che insegna come riprendere l’abitudine ai gesti e a comandare la mano fino all’impianto vero e proprio. Una sorta di riavvicinamento lento che chiede una grande partecipazione da parte del paziente. Soprattutto la cosiddetta fase dell’allenamento richiede la volontà fisica e mentale per imparare a utilizzare quello che nel cervello è rimasto dopo il trauma. Nella maggior parte dei casi si tratta di segnali pressoché impercettibili, forse non così forti da riuscire a far muovere un avambraccio ed una mano. Segnali che, invece, se stimolati nel modo corretto e con gli aiuti specifici, hanno il potere di far spostare una protesi.
I SEGNALI
La prima parte della preparazione consiste nel generare con il bisturi dei siti sui muscoli dell’avambraccio in cui è possibile registrare i segnali che sono rimasti con l’aiuto di elettrodi. La seconda si concentra sulla “ginnastica” mentale messa a punto dal chirurgo viennese.
«In alcuni incidenti come quelli in moto – fa sapere l’ingegnere Dario Farina – può restare danneggiato il plesso brachiale, una giunzione di nervi che dalla spina dorsale raggiunge tutte le parti del braccio per il controllo dei movimenti della spalla, gomito e mano. Se il danno avviene a livello della spalla, l’informazione di comando del braccio che parte dal cervello non riesce più a raggiungere la mano. Che non può più muoversi e perde sensibilità. L’uso della mano viene perso e non ci sono attualmente soluzioni a queste lesioni».
I medici, gli ingegneri e i tecnici esultano. I pazienti, increduli, riescono ad abbottonarsi la camicia, versano l’acqua nel bicchiere, tengono una cannuccia tra le dita, infilano la forchetta in una patata nel piatto, prendono un cioccolatino dalla scatola.