Libero, 24 febbraio 2015
Il caso della 59enne inglese che vuole essere madre con gli ovuli della figlia morta. L’uso sconsiderato della fecondazione artificiale
Al di là del caso specifico, è la questione di fondo a far discutere, e così sarà per chissà quanto. Volontà di (onni)potenza, sogno (incubo) faustiano, gli embrioni cavie da laboratorio: i difensori del concepimento tradizionale possono ripetere tutte le formule di condanna che vogliono, ma gli altri, quelli che per realizzare il desiderio di avere un bambino si pongono come unico limite il cielo, continuano a avanzare. Una donna inglese di 59 anni ha chiesto di usare come madre surrogata gli ovuli della figlia morta nel 2011, a 26 anni, per un cancro all’intestino. La ragazza, nella speranza di guarire, fece congelare gli ovuli. Ora la madre chiede di «realizzare il sogno della figlia», di farne fecondare gli ovuli da un donatore esterno e farseli impiantare per dare alla luce un bambino che sarebbe al tempo stesso suo figlio e suo nipote. Dopo che tutte le cliniche britanniche si sono rifiutate di assisterla, la donna ha annunciato che sarebbe andata negli Usa, nella clinica Fertility Services di New York, che ha dato il nulla osta a questo primo caso di maternità surrogata per conto di una figlia deceduta. La donna è stata fermata dalla HFEA, Human Fertilisation and Embryology Authority, dipartimento del ministero della Salute britannico che si occupa di vigilare sulla procreazione assistita. L’Authority ha negato il consenso all’esportazione degli ovuli della figlia perché la ragazza, che all’epoca del decesso era single, per una fatalità o per scelta non aveva compilato il modulo in cui si dichiara che fare degli ovuli congelati. Così il consenso all’uso degli ovuli è tecnicamente annullato. In assenza di altre istruzioni da parte della figlia, la madre sostiene che in una conversazione in ospedale la ragazza, consapevole che non sarebbe sopravvissuta, le avrebbe chiesto di «far nascere i bambini al posto suo». Le cliniche britanniche in generale non accettano casi di procreazione assistita per donne oltre i 50 anni, per via della bassa probabilità di successo a fronte degli alti rischi per la salute. La clinica americana invece ha dato la sua disponibilità nonostante il parere della HFEA che, insieme con la «comprensione» per il dramma della donna e del marito di 58 anni, ha rilevato che le probabilità che la donna resti incinta «sono molto piccole» e che «eventuali complicazioni metterebbero a rischio la sua vita». La donna è però intenzionata a andare avanti, e ora attende, in data da stabilire, la pronuncia della Corte Amministrativa, divisione dell’Alta Corte, suprema istanza civile del Regno Unito. Se anche l’Alta Corte dovesse rigettare la richiesta, gli ovuli verranno distrutti nel febbraio 2018, dieci anni dopo il congelamento come prescrive la legge. Un caso simile, quello di una madre che chiese di farsi impiantare l’embrione della figlia morta, andò anch’esso incontro a un rifiuto. Mentre è del 1997 il caso di Diane Blood, che vinse una battaglia legale per usare lo sperma congelato del marito morto per concepire un bambino. Ma il caso più vicino a quello della 59enne inglese è quello di Anne Casserley, che all’età di 53 anni fece da madre surrogata per la figlia Emma, che a causa di una rara patologia polmonare non avrebbe potuto sostenere una gravidanza se non a rischio della vita. Emma è ancora viva, sebbene attenda un trapianto, e sua figlia, che è anche figlia e nipote di sua madre, si chiama Annie come la nonna-mamma, sta bene e ha 9 anni. E proprio Anne ha dato il suo sostegno alla donna di 59 anni di cui i giornali non hanno rivelato il nome. «Dipende dal suo stato di salute, ma se questo era il desiderio della figlia e lei vuole onorarlo allora è soltanto una sua scelta. Se anche fossi morta nel mio tentativo non me ne sarei pentita. È stato un assoluto privilegio. Dopo il parto, due giorni dopo, ero a casa. Farei qualunque cosa per mia figlia, questa è solo una delle cose da fare per i tuoi figli». Ma tutto ciò vale anche quando si tratta degli ovuli di una ragazza deceduta? È ormai acquisito il fatto di realizzare un desiderio di maternità per una persona viva, ma per una che non c’è più? Quanto è illusorio e pretestuoso dire «lo faccio per mia figlia» quando poi, di fatto, le cure genitoriali ricadranno tutte esclusivamente sui membri di una coppia che anagraficamente e biologicamente sono i nonni del bambino? Ci sembra che nel profondo lutto per la scomparsa prematura della figlia, ci sia un desiderio irrazionale di risarcimento che ignora persino i conclamati rischi per la salute, e che porta a forzare la procreazione, un rischio di cui l’Authority britannica non ha voluto rendersi complice appoggiandosi al cavillo del mancato consenso.