La Stampa, 24 febbraio 2015
Pinin Brambilla Barcilon, la restauratrice di Leonardo. In un libro racconta come lo ha conosciuto attraverso l’Ultima Cena: «Il restauro mi ha dimostrato abbastanza presto che su quello scudo c’era stato un ripensamento, una riflessione. È proprio da quel particolare che ho cominciato a capire l’uomo»
«Leonardo me lo sono sempre immaginato così, con un piede sul ponteggio, mentre dà inizio al lavoro. Per prima cosa ha schizzato uno degli scudi. Aveva fatto dei disegni preparatori, certo: ma lì doveva tirare le somme con lo spazio, con la realtà della parete. E il restauro mi ha dimostrato abbastanza presto che su quello scudo c’era stato un ripensamento, una riflessione. È proprio da quel particolare che ho cominciato a capire l’uomo». Con Leonardo da Vinci Pinin Brambilla Barcilon, nata nel 1925, ha intrattenuto per molta parte della vita un meraviglioso corpo a corpo: è lei la ferrea ed elegante signora milanese (pullover cammello, sobri gioielli) che dal 1977 al 1999, «immersa in una follia», esercitando «una disciplina che era quasi un castigo», ha restaurato l’affresco di Santa Maria delle Grazie.
Dunque immaginatevela anche lei sul ponteggio, «trafitta come un san Sebastiano», concentrata nell’ascolto del capolavoro. Ma non nella solitudine che le sarebbe stata necessaria, perché «il Cenacolo non fu mai chiuso durante i restauri, venivano le scolaresche urlanti, arrivavano quelli che mi dicevano: si sposta che non vedo Giuda? Arrivò a un certo punto, nonostante le mie proteste, perfino la troupe di Portobello». E lei che si metteva il paraocchi, «anche contro le invidie, le polemiche, i pareri contrastanti». E contro gli ostacoli burocratici e finanziari, che vennero a un certo punto superati per l’intervento risolutivo di Olivetti.
La barzelletta Dan Brown
Eppure ben prima di Dan Brown («Una barzelletta: non ne parliamo, vuole?»), e molto, molto prima che l’Expo ripuntasse i riflettori sul Leonardo milanese, quando all’estero si parlava di Ultima Cena, dagli estatici articoli sul New York Times alle visite deferenti della regina Elisabetta e dell’imperatrice del Giappone, era lei che si evocava, la chief conservator, china sui suoi solventi e sul suo microscopio, quella a cui Carlo d’Inghilterra disse preoccupato: «Signora, ma che ne sarà dei suoi occhi?».
Ora che un suo libro (La mia vita con Leonardo, in uscita da Electa martedì) segna un compleanno importante e un pezzo decisivo di cultura artistica italiana, la professoressa un po’ si schermisce («Mi è costato scrivere di me, riservata come sono») e un po’ fa sapere di essere piena di impegni. La mattina prende il tram 14 e viene in studio, tra i capannoni industriali recuperati dalla moda a Porta Genova. E intanto si occupa di alcuni affreschi a Palazzo Borromeo, dei Bernardino Luini alla Pelucca di Sesto San Giovanni, di un progetto ancora segreto in cui parrebbe esser coinvolto Raffaello.
Ma alle Grazie ci torna, signora? Riguarda quei profili che, prima del suo intervento, il mondo si era adattato a percepire in maniera deformata, quei colori tersi che ha sottratto alla fuliggine? «Di sicuro ci vado almeno una volta ogni due anni, per spolverare l’affresco. E poi quando è necessario: per esempio l’altro giorno, a calibrare la nuova illuminazione a led, perché modifica la percezione della cromia e bisogna sapere dove raffreddare e dove riscaldare».
Tentare l’impossibile
Nessuno può riuscirci meglio di chi laCena l’ha fatta rinascere, a cominciare dalle prime prove sulla veste di Simone, per poi salvarla da quella maledizione di malata irrecuperabile che fece dire a Cesare Brandi: «Non c’è più nulla di Leonardo, non si deve toccare». A tentare l’impossibile arrivò la donna avviata al restauro da Piero Portaluppi e da Mauro Pellicioli ai tempi della facoltà di architettura, e che «dopo aver cominciato da ragazza dipingendo i fiori su certe tovaglie per Gio Ponti» già si era occupata della Pala Montefeltro di Piero della Francesca, oltre che di numerose testimonianze di arte lombarda, da Mirasole a Viboldone, dalla cappella Visconti in Sant’Eustorgio a San Bassiano a Lodi Vecchio.
A casa un marito affettuoso «ma che ogni tanto mi diceva che andavo a caccia di arcobaleni», un figlio a cui poi si sarebbe rammaricata di aver sottratto tempo, un ménage domestico da mandare avanti senza aiuti. «L’avvicinamento a Leonardo – racconta – cominciò con il restauro dellaCrocifissione di Giovanni Donato da Montorfano che sta sulla parete opposta del Cenacolo. Lavoravo e mi chiedevo: che cosa avrà pensato questo pittore dell’affresco che aveva davanti? Si sarà sentito magari migliore di Leonardo, perché aveva imbroccato la tecnica giusta?». Ancora l’uomo che sta dietro l’opera d’arte, l’elemento che la interessa di più, «che m’incuriosisce anche se il quadro è minore».
Pragmatismo lombardo
E dell’uomo Leonardo, di quello che ogni tanto le pareva un figlio difficile, che si faceva prendere e poi riscappava, che cosa ha colto, alla fine? «Che di certo non pensava di essere un genio o il più bravo del reame. E che non era mai soddisfatto: delle teste soprattutto, motivo di infiniti ripensamenti. Fino all’ultima, quella di Cristo, per cui non riusciva a trovare un modello adeguato».
Resta la famosa questione dell’affresco «sbagliato», quella che la professoressa spiega con «un’indifferenza a seguire la regola tradizionale, un’esigenza di non vincolarsi ai tempi di esecuzione». In sintesi, una scelta di libertà e di originalità a scapito della possibilità di lasciare ai posteri un dipinto integro; un nodo tra permanenza dell’opera e performance artistica che pare fin troppo contemporaneo. Ma Pinin ci riporta a un sano pragmatismo, lombardo come lei: «Quando uno è vecchio, è vecchio», dice, parlando dello stato di conservazione attuale della Cena. Non si riesce a pensare lo stesso di lei, mentre corre all’appuntamento con Bernardino Luini.