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 2015  febbraio 24 Martedì calendario

Processo Eternit, le motivazioni per le condanne annullate della sentenza di Cassazione: la prescrizione va calcolata del 1986 e toccava agli enti pubblici il comando di provvedere alla bonifica dei siti. Cronaca di un disastro annunciato

Il maxiprocesso Eternit per il disastro ambientale causato dalla diffusione di polvere d’amianto nei siti di Casale Monferrato, Bagnoli di Napoli e Rubiera dell’Emilia era prescritto prima che fosse pronunciata la sentenza di primo grado in cui gli imputati – il belga Louis de Cartier (deceduto poi alla vigilia del verdetto d’Appello) e lo svizzero Stephan Schmidheiny – furono condannati. Di più: la prescrizione, secondo la Corte di Cassazione, che ha depositato ieri le motivazioni del verdetto pronunciato la tarda sera del 19 novembre scorso, già aveva spazzato via tutto il lavoro investigativo della procura di Torino prima ancora che il pool di pm – Raffaele Guariniello, Gianfranco Colace e Sara Panelli – facesse la richiesta di rinvio a giudizio.
La prescrizione
Il punto nodale riguarda il momento da cui decorre la prescrizione. I giudici della Suprema Corte scrivono: «La consumazione del reato di disastro non può considerarsi protratta oltre il momento in cui ebbero fine le immissioni delle polveri e dei residui della lavorazione dell’amianto prodotti dagli stabilimenti, della cui gestione è attribuita la responsabilità all’imputato (è rimasto Schmidheiny, ndr): non oltre il giugno 1986, dunque, in cui venne dichiarato il fallimento dell’Eternit», cioè «quando cessò l’attività produttiva che aveva determinato la disastrosa contaminazione dell’ambiente lavorativo (disastro interno, ndr) e del territorio circostante (disastro esterno, ndr)».
La procura e le parti civili, a questo proposito, avevano lungamente controbattuto sottolineando che le fabbriche non furono semplicemente chiuse, «ma ab-ban-do-na-te», lasciando una sorta di «ordigno innescato a rilascio lento» da cui hanno dipeso e continuano a dipendere centinaia di morti causate dal mesotelioma, cancro maligno provocato dall’amianto, che si manifesta dopo latenza di parecchi anni. 
La mancata bonifica
Ma la Corte, a questo proposito, rileva, invece, che «non può annettersi rilievo della mancata o incompleta bonifica dei siti» da parte dell’imprenditore svizzero. In sostanza, era incombenza che non spettava obbligatoriamente a lui. Anzi, soprattutto dopo l’entrata in vigore della legge del 1992, che vietò l’amianto in Italia, preceduta dai solleciti comunitari europei, non si potevano ignorare «gli effetti morbigeni della fibra», ed era stato rivolto «agli enti pubblici il comando di provvedere alla bonifica dei siti».
Quindi, per la Corte, sia che la decorrenza della prescrizione parta dal 1986 o, più tardi, dal 1993 (dopo la legge), «alla data del rinvio a giudizio (2009) e alla sentenza di primo grado (13 febbraio 2012) sono passati oltre quindici anni» (non parliamo, poi, di quella d’Appello, quella impugnata). Tanti quanto bastano per la prescrizione che, nel frattempo, ha agito e spazzato via tutto, «annullando la sentenza d’Appello senza rinvio». E, insieme, anche «le questioni concernenti i risarcimenti dei danni». Se quell’amianto abbandonato o malsepolto continua a causare malattie e morti, queste sono da ritenere soltanto «effetti» di un reato che, se ci fu, ormai è sepolto sotto la tomba della prescrizione. E, quindi, non punibile.