Il Messaggero, 23 febbraio 2015
Torna al cinema Non ci resta che piangere con Benigni, Troisi e la Sandrelli che doveva fare gli esami di maturità. Tra scherzi terribili e scene leggendarie
Correva l’anno 1984, quasi 1985. Il 21 dicembre uscìNon ci resta che piangere e l’Italia non fu più la stessa. «Sono stato testimone dell’incontro dei più grandi talenti di quella generazione chiamata dei nuovi comici» ricordava il compianto coautore della sceneggiatura Giuseppe Bertolucci: «Due arti opposte: la parola per Roberto e l’afonia per Massimo. Identica la provenienza di entrambi: il sottoproletariato».
Dopo l’esplosione in tv con Arbore e il successo di nicchia Berlinguer ti voglio bene, Benigni aveva diretto un solo film (Tu mi turbi). Troisi era più nazionalpopolare con due successi clamorosi al botteghino (Ricomincio da tre, Scusate il ritardo) e un seguito di pubblico forse superiore rispetto al più scorbutico talento toscano. In barba a possibili rivalità o gelosie, i due decisero di unire i talenti. Il resto è Storia, anzi un viaggio esilarante nella Storia. Un anno prima dell’epocale Ritorno al futuro, infatti, il cinema italiano giocava già con il paradosso cronologico.
C’erano una volta un dolce bidello (Troisi) e un pedante maestro delle elementari (Benigni), catapultati per via di una tempesta dal 1984 all’Italia del tardo Quattrocento («Quasi Cinquecento» come recita uno dei tanti tormentoni). Il copione, scritto alla brava e consegnato in folle ritardo, vide esordire una splendente Amanda Sandrelli fresca di maturità liceale. Lei, così giovane e timida, fu vittima di uno scherzo terrificante. Il sodale di Benigni, lo sboccatissimo Carlo Monni (scomparso nel 2013), nel film il rude Vitellozzo, scandalizzò la figlia di Stefania Sandrelli quando, indotto con l’inganno dai due registi a descrivere le sue fantasie erotiche nei confronti di mamma Stefania, si lanciò in un resoconto di rara sconcezza ignaro che Amanda fosse arrivata proprio in quel momento sul set.
La pellicola fu girata a Cinecittà dove venne ricostruito dal grande Francesco Frigeri l’immaginario villaggio di Frittole. Altri pezzi da novanta nel cast tecnico: Rotunno alla fotografia, Baragli al montaggio e Desideri come arredatore. Il titolo venne da una poesia di Petrarca suggerita da Benigni a Troisi. Quando i due finirono le riprese, Non ci resta che piangere sfiorava le quattro ore e mezza (lo ricorda con orrore il produttore Vittorio Cecchi Gori).
Tante le scene e battute entrate nell’immaginario collettivo di un Paese che premiò il film con 15 miliardi di lire di incasso incoronandolo campione della stagione ’84-’85. L’apice del gioco di squadra si concretizzò nel celeberrimo omaggio alla lettera di Totò, Peppino... e la malafemmina che Troisi temeva assai. È il momento in cui Mario e Saverio scrivono al frate domenicano per liberare l’amico Vitellozzo dalla prigione. «Massimo non voleva fare quella scena. La improvvisammo solo perché avevamo pellicola da impressionare» ricorda Benigni. Ma tutta quella sequenza è circondata da un alone di leggenda.
Si narra che durante l’improvvisazione si radunarono da tutta Cinecittà almeno 500 persone per assistere dal vivo al duetto jazz di due geni dell’arte comica. Ma come non ricordare anche Troisi che corteggia la Sandrelli millantando di aver scritto Yesterday dei Beatles e l’inno di Mameli, o il paziente Leonardo da Vinci di Paolo Bonacelli e l’amazzone misteriosa di Iris Peynado, tagliata nella scena d’amore con Troisi dalla versione più nota da 107 minuti nonostante ne esista anche una da 145? E soprattutto: perché stiamo ricordando un film del 1984?
La risposta è semplice: dal 2 al 4 marzo questo capolavoro del cinema italiano tornerà in sala in una versione restaurata e rimasterizzata grazie a Benigni, Mediaset, Film & Video e Lucky Red. E a noi non resterà che ridere. Ancora una volta. Con un pensiero a Troisi, scomparso prematuramente solo dieci anni dopo quell’indimenticabile 1984. Quasi 1985.
Francesco Alò****
L’intervista
«Ho girato pochissimo, 7-8 giorni che però hanno cambiato la mia vita: se faccio questo lavoro la “colpa” è proprio di Troisi e Benigni». Così, con grande affetto e vivace entusiasmo, Amanda Sandrelli ricorda l’estate di 31 anni fa quando si ritrovò, appena dicciannovenne, a girare Non ci resta che piangere.
«Dovevo fare gli orali della maturità due giorni prima dell’inizio delle riprese, ma quando il produttore Mauro Berardi mi chiese se volevo incontrare Roberto e Massimo accettai subito. Mi avevano vista a una festa di mia madre. Ero piccola, dimostravo 15 anni, pallida e bellina, i capelli lunghi e lisci, molto rinascimentale insomma, proprio come loro immaginavano Pia, il personaggio che poi ho interpretato. Dissi subito che non avevo mai recitato, ma loro mi rassicurarono e capimmo insieme chi fosse Pia. Non c’era un copione e, a quanto ne so, non c’è mai stato. Improvvisavano su un canovaccio».
Cosa ricorda di quel primo incontro?
«Benigni mi accolse spiegandomi che non si trattava di un ruolo grande ma nemmeno piccolo. Andò avanti per un po’ per cercare di dare le dimensioni della parte che avrei avuto ripetendo “né grande, né piccolo” e Troisi intervenne dicendo “Medio, un ruolo medio: non ce stesse la parola ma ce stà!”. Più tardi scoprii che si trattava di una battuta di Eduardo. Erano così, semplicemente straordinari. Si stimolavano a vicenda, tra mille idee e sempre nuove battute. Quanto a me, ho avuto la fortuna di trovarmi al posto giusto nel momento giusto. Ero probabilmente un buon materiale da plasmare, soprattutto perché completamente spudorata, visto che non mi rendevo conto di nulla. Mi ha aiutata, poi, un talento che scoprii solo allora e spesso mi ha guidata anche in seguito: un ottimo orecchio che mi permetteva di riprodurre con facilità ciò che sentivo. Per il resto ero tra le mani di due geni in stato di grazia».
Che effetto le fa rivedersi oggi? «Mi piaccio. Ed è strano. In tutto ciò che ho fatto dopo, almeno nei cinque anni successivi, trovo tanti di quei difetti che evito di rivedermi. Eppure in quel film mi piaccio».
Prima non aveva mai pensato di diventare un’attrice?
«No. Volevo fare l’università ma con loro mi sono divertita tantissimo e poi il successo incredibile di quel film mi ha sommerso di proposte, così, a un certo punto, ho ceduto».
Andrà a vederlo al cinema?
«Certo! E ci porterò anche i miei ragazzi, che lo hanno già visto in videocassetta… ma al cinema è tutta un’altra cosa».