Corriere della Sera, 23 febbraio 2015
Jobs Act, Guerini risponde alle critiche della minoranza dem e della Boldrini. Il vicesegretario del partito non capisce come «si possa utilizzare una divergenza di opinioni su un singolo passaggio della riforma per aprire questioni che con l’attuazione della delega lavoro non c’entrano nulla e un presidente della Camera dovrebbe pesare ogni parola. Ci vuole saggezza, prudenza, equilibrio»
«Non si possono confondere i piani e minacciare di far mancare il voto. Nel Pd c’è stato un dialogo ampio e il ruolo del Parlamento è sempre stato rispettato». Lorenzo Guerini, vicesegretario democratico, risponde alla critiche arrivate dalla minoranza del partito dopo il varo del Jobs act.
La minoranza è in guerra. Stefano Fassina pensa a un coordinamento dei «dissidenti» per poter pesare di più sui punti critici delle prossime riforme.
«Non capisco come si possa utilizzare una divergenza di opinioni su un singolo passaggio del Jobs act per aprire questioni che con l’attuazione della delega lavoro non c’entrano nulla».
Teme che la minoranza voglia farvi una sorta di ricatto o di veto?
«Non voglio usare questi termini, ma credo che sarebbe un grave errore confondere i piani».
Però dopo il varo del Jobs act c’è stata una mezza rivolta nel Pd.
«Sul merito, il governo era impegnato ad attuare una delega, votata dal Parlamento dopo un dibattito importante, per rendere più efficiente e moderno il mercato del lavoro. Per estendere le tutele, disboscare le forme contrattuali e ridurre la precarietà».
Obiettivo fallito, per molta sinistra pd.
«Le reazioni nazionali, per esempio delle imprese, e quelle internazionali, danno il senso di come questo passaggio sia ritenuto una svolta importante. Credo che il giudizio debba essere dato complessivamente, sull’obiettivo scelto, cioè la creazione di un contesto che favorisca l’occupazione, e sui metodi scelti».
La minoranza non è d’accordo soprattutto sui metodi. E sottolinea come Ncd canti vittoria.
«Nel Pd c’è stato un percorso di partecipazione molto ampio. Un ordine del giorno, votato quasi all’unanimità, ha approvato la legge delega. E anche Sacconi ci criticò molto».
Si contesta il fatto che il governo non ha tenuto conto, sui licenziamenti collettivi, del parere negativo delle due Commissioni.
«Le Commissioni hanno espresso pareri articolati, che non sono vincolanti ma solo consultivi. Sta al governo decidere se recepirli interamente o in parte».
Ma, come dice Vannino Chiti, ignorare il parere del Parlamento è una scelta «non priva di conseguenze».
«Alla gente credo che interessi poco la nostra dialettica interna. Dobbiamo rimanere sul merito».
Così non rischiate di perdere un pezzo della sinistra del partito?
«Siamo un partito di sinistra e riformista, in cui le diverse storie politiche devono continuare a convivere come elemento di ricchezza, non di difficoltà».
Laura Boldrini ha criticato Renzi, parlando di «uomo solo al comando».
«Un presidente della Camera, figura di garanzia, dovrebbe pesare ogni parola. Ci vuole saggezza, prudenza, equilibrio. Francamente non capisco cosa significhi una frase del genere. Se invece la questione è quella di valutare il rapporto tra partito e leader, il tema non va sottovalutato: abbiamo bisogno di partiti che rappresentino la complessità della società, ma che siano anche connessi a una leadership che sia punto di sintesi e di guida dei processi».
Il leader della Fiom Maurizio Landini lancia una sfida «politica» a Renzi. Come valuta l’ipotesi di una sua discesa in campo?
«È già successo in passato che figure importanti del movimento sindacale siano entrate in politica. Ognuno può far quel che vuole, anche se non ho capito che contributo potrebbe dare Landini. Se il sindacato non fa il suo mestiere, difendere gli interessi dei lavoratori, e confonde il suo ruolo, rischia di muoversi nella direzione sbagliata. Ma non confonderei i desideri di un singolo con quelli del sindacato».