la Repubblica, 23 febbraio 2015
Londra si prepara al voto rebus, il più incerto dal dopoguerra ad oggi. Anche se i Tories sembrano essere in vantaggio, nessuno pare essere in grado di governare senza alleati scomodi. Tra leader poco carismatici e crisi d’identità lo storico bipartitismo è un ricordo. E mentre i bookmaker piazzano le scommesse, il New York Time prevede un terremoto che cambierà radicalmente il panorama politico britannico
Sulla lavagna di Paddy Power, l’agenzia di allibratori più popolare d’Inghilterra, c’è una nuova competizione su cui scommettere: tra calcio, rugby e corse di cavalli, ora gli appassionati possono puntare anche sulle elezioni del 7 maggio prossimo. Con una differenza rispetto allo sport: non c’è un favorito. I bookmaker offrono nove risultati differenti sulla sfida alle urne in programma fra poco più di due mesi, ma tutti a quotazioni simili. Vittoria dei conservatori, vittoria dei laburisti, coalizione di centro-destra, coalizione di centro-sinistra, grande coalizione alla tedesca fra i due maggiori partiti, parità e necessità di fare nuove elezioni: un voto rebus, aperto a ogni esito. L’ Economist lo dipinge in copertina come una grande frattura: un terremoto che cambia radicalmente il panorama politico britannico. Nel Regno Unito vigeva da sempre un bipartitismo perfetto, in cui Tories e Labour si alternavano al potere. Oggi è diventato un sistema simile all’Italia della prima Repubblica, con mezza dozzina di partiti che si contendono consensi. «Una ricetta per instabilità e crisi di legittimità», avverte preoccupato il settimanale londinese. Noi ne sappiamo qualcosa. Gli inglesi non ci sono abituati.
Vari fattori contribuiscono al fenomeno: la mancanza di leader carismatici come sono stati la Thatcher e Blair, la perdita di identità storica dei partiti principali, con destra e sinistra che convogliano entrambi verso il centro, il vento del populismo che attraversa tutta l’Europa. Fatto sta che nel 1951 conservatori e laburisti raccoglievano insieme il 91 per cento dell’elettorato, mentre adesso ottengono a fatica un terzo dei voti per ciascuno. Gli ultimi sondaggi assegnano il 36 per cento ai Tories, il 32 al Labour, il 10 all’Ukip (il partito anti-europeo guidato da Nigel Farage), il 9 ai liberaldemocratici, il 7 ai verdi, il 4 al partito nazionalista scozzese. È la prima volta in più di tre anni che il partito del primo ministro David Cameron balza in testa. Ma per effetto del modo in cui vengono assegnati i seggi, con il sistema maggioritario, è possibile che Tories e Labour ricevano esattamente lo stesso numero di deputati; ed è sicuro che nessuno dei due conquisterà la maggioranza assoluta necessaria per governare da soli. Un piccolo partito come quello nazionalista scozzese, che tuttavia prende voti soltanto in Scozia, potrebbe avere un peso sproporzionato sul prossimo governo, se decidesse di allearsi con i laburisti, condizionandone pesantemente le scelte. Viceversa l’Ukip, che ha vinto le elezioni europee dell’anno scorso, potrebbe avere solo un pugno di parlamentari, perché i suoi consensi sono sparpagliati per tutto il paese, con difficoltà a raggiungere la maggioranza nei singoli collegi elettorali, ma può comunque danneggiare i conservatori, portando loro via voti preziosi. C’è chi pronostica che alla fine i Tories prevarranno, formando di nuovo una coalizione con i lib-dem, come è accaduto nella legislatura che sta per concludersi, ed eventualmente pure con l’Ukip. Altri prevedono una maggioranza formata da laburisti e liberaldemocratici, con l’appoggio esterno dei nazionalisti scozzesi e forse anche dei verdi. Ma che legittimità avrebbe un governo tenuto in piedi da un partito, quello scozzese appunto, il cui obiettivo resta l’indipendenza della Scozia dalla Gran Bretagna, nonostante la sconfitta subita nel referendum del settembre scorso?
In apparenza l’incertezza è difficile da spiegare. Dopo cinque anni di governo Cameron, la Gran Bretagna ha la ripresa più forte e la disoccupazione più bassa d’Europa, la Borsa di Londra è al livello più alto degli ultimi quindici anni. Eppure la gente non è contenta. La politica dell’austerità, a base di pesanti tagli alla spesa pubblica, ha imposto duri sacrifici alla maggioranza della popolazione. Un rapporto della London School of Economics indica che è stata la classe media a soffrire particolarmente. Il gap ricchi-poveri continua ad allargarsi. La salute dell’economia è drogata dal settore finanziario e dalla bolla immobiliare, con i prezzi delle case che nella capitale crescono di un folle 20 per cento annuo. Per di più, il primo ministro conservatore aveva promesso di pareggiare il debito entro il 2015 e ora invece deve ammettere che ci vorranno altri cinque anni, con tagli e sacrifici ancora più severi. Protestano perfino i liberaldemocratici, suoi partner di governo: «Se verranno fatti i nuovi tagli previsti da Cameron, la sanità e gli altri i servizi pubblici essenziali ne usciranno distrutti», afferma Danny Alexander, numero due lib-dem e viceministro del Tesoro. “Wealth versus health”, ricchezza contro sanità, riassume il quotidiano Independent.
Scende in campo addirittura la chiesa anglicana, indignata da un capitalismo che giudica ingiusto, spietato, immorale: gli strali lanciati dall’arcivescovo di Cantebury, Justin Welby, fanno perdere la pazienza a Downing street, che lo ha accusato di indebita interferenza politica.
Ma ecco un altro paradosso: se cresce lo scontento, a guadagnarci dovrebbe essere l’opposizione. Invece non succede. Anzi, più il voto si avvicina, più i laburisti perdono terreno. Il motivo, secondo molti commentatori, è il capo del Labour: Ed Miliband, privo di carisma, incapace di fornire una chiara visione del futuro e autore di una gaffe dopo l’altra, tanto che i media l’hanno soprannominato “Mister Bean”, come il clownesco personaggio di cinema e tivù. Le voci di una congiura laburista per sostituire all’ultimo Miliband con un candidato più credibile sono andate avanti fino a una settimana fa. Disperato, per metterle a tacere il leader è stato costretto a dare un ruolo pubblico nella campagna elettorale a Tony Blair, che lo ha sempre criticato giudicandolo «troppo di sinistra» per poter vincere e ora dovrebbe difenderlo. Curiosamente, Cameron e Miliband hanno assunto come consulenti elettorali due guru americani che lavoravano per lo stesso cliente: Jim Messina, direttore della campagna dei conservatori, e David Axelrod, stratega di quella dei laburisti, facevano entrambi parte del team che ha portato Barack Obama alla Casa Bianca. Stavolta rischiano di non portare i loro candidati da nessuna parte. Al punto da non escludere lo scenario di una grande coalizione conservatorilaburisti, per tenere fuori dal governo i populisti di destra e di sinistra e riproporre il duello elettorale fra qualche anno.
L’incertezza sul parlamento che uscirà dalle urne riguarda l’edificio medesimo: Westminster cade a pezzi, avrebbe bisogno di un costoso restauro, si parla di trasferire temporaneamente i deputati altrove mentre si svolgono i lavori o addirittura di vendere l’antico palazzo, magari a un miliardario cinese o a uno sceicco arabo, visto che i soldi per restaurarlo, al momento, non ci sono. L’ Economist suggerisce un restauro non solo architettonico, ma costituzionale: una riforma per iniettare una dose di proporzionale nel sistema elettorale britannico, per ridurre le pretese di forze regionali come i nazionalisti scozzesi. Di certo c’è che la Gran Bretagna sembra alla vigilia di un terremoto. E nessuno si sente di scommettere su come si risveglierà dopo le elezioni. Nemmeno i bookmaker.