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 2015  febbraio 20 Venerdì calendario

La vera guerra si combatte sul web. Dalle decapitazioni di massa in video ai messaggi bomba su twitter. Così l’Isis spaventa il nemico, compatta le file e cattura nuovi consensi. E la ferocia sanguinaria dei pochi che stanno sul campo fa il resto

Quelli dell’Isis sono in Libia da tempo. All’inizio confusi con altre formazioni estremiste molto attive nella regione di Derna, poi hanno tentato di allargarsi, grazie anche al sostegno della casa madre. La forza dei mujaheddin libici non è ancora paragonabile alle unità del Califfo, organizzate come un esercito capace di prendersi parte dell’Iraq e un pezzo di Siria. Ci stanno lavorando ma intanto hanno investito sul fronte più facile: quello della propaganda. 
Non potendo mettere a segno successi militari importanti contro milizie agguerrite hanno scelto la strada delle decapitazioni, uccisioni orrende filmate con cura e diffuse sul web. Mossa che equivale oggi a trasmetterle in mondovisione. Per farlo si sono procurati le vittime: 20 egiziani copti ai quali hanno aggiunto Matthew Aiyrga, un muratore del Ghana finito nelle loro mani e aggiunto al gruppo. Poi hanno eseguito il sacrificio umano con uno scenario perfetto: una spiaggia – dicono vicino a Sirte – che «guarda» verso l’Italia per dire andiamo oltre l’orizzonte. 
L’esecuzione, rilanciata centinaia di volte sul web, ha avuto l’effetto di una vittoria. Anche i distratti si sono accorti che le avanguardie dell’Isis non erano poi così distanti da noi. Merito di un terrorismo 2.0, che ammazza per marcare il territorio ma prima ancora usa con grande padronanza Internet per imporsi sulla scena ricorrendo a ogni piattaforma digitale o social network. Talvolta ben oltre la sua reale consistenza. 
Un messaggio su Twitter, meglio se accompagnato da un’immagine, ha l’effetto di una «bomba», anche se non è facile dire quanto sia autentico. Il dubbio non consola, né attenua i timori. 
Qualche esperto è convinto che lo Stato Islamico libico abbia ottenuto la consulenza-assistenza dei «fratelli» siriani. Forse hanno mandato una troupe o qualcuno in grado di dare consigli tecnici. Inquadrature, tute arancioni e la divisa mimetica con maschera del nuovo Jihadi John erano identiche a quelle dei video in Siria. Uscita che – al solito – si è poi autoalimentata con le speculazioni sulla nazionalità del boia con l’accento inglese o americano, a seconda delle analisi. 
Nel filmato c’erano anche i contenuti politici. La guerra santa, l’uccisione indiscriminata dei cristiani, l’ammonimento a Roma. E in altri documenti i militanti hanno mostrato l’applicazione intransigente della Sharia, con la distruzione di sigarette, alcolici, tamburi. O ancora le azioni suicide dei loro compagni. 
È uno show di potenza – vera o presunta – con la quale il movimento si prefigge alcuni obiettivi: spaventa il nemico, compatta le file, cattura nuovi consensi, supera in ferocia Al Qaeda, inserisce la lotta in un disegno globale che deve chiudersi con l’Apocalisse intesa come battaglia finale con i cristiani a Daqib. Scontro risolutivo che è una costante dell’etichetta Isis. E per questo imitata da chi si riconosce nel Califfo. 
A novembre, la fazione egiziana Beit al Makdis ha giurato fedeltà all’Isis e ha celebrato la notizia con un video di 30 minuti dedicato alle operazioni dei militanti nel Sinai. 
Fazione temibile e temuta che, sempre in omaggio alla strategia mediatica, ha usato le decapitazioni mostrate sul web per sottolineare come fosse determinata nel seguire le tattiche che lo Stato Islamico ha trasformato in firma riconoscibile da tutti. 
Ora c’è da attendersi qualche altra sorpresa da Derna o da Sirte. La catena non solo non può interrompersi ma deve andare oltre. Se i miliziani hanno bruciato vivo il pilota giordano, quelli libici non vorranno essere da meno. È necessario per mantenere tensione e brand. 
Se l’Isis libico vuole accrescere la pressione – anche virtuale – su Roma dovrà inventare qualcosa. È un approccio agile e duttile, che lascia agli estremisti la possibilità di scegliere tra un attacco reale e l’incursione sulla rete. 
È un messaggio efficace. Solo adesso la comunità internazionale prova a contrastarlo in modo coordinato. «I terroristi manipolano l’Islam, dicono bugie», ha accusato Obama. Il problema è che le sanno raccontare bene.