La Stampa, 20 febbraio 2015
Cosa ha fatto davvero Renzi per l’Italia? Svelto come Craxi, tessitore come Andreotti, comunicatore come Berlusconi, gran twittatore, il presidente del Consiglio 2.0 ha mantenuto molte promesse su lavoro e impresa ma sulla burocrazia no. E in molte cancellerie ancora non lo vedono «statista». Il Rattomatore un anno dopo
Il recupero della storia. Brusco come Craxi, cinico come Andreotti
Renzi è svelto e brusco come Craxi, cinico e tessitore come Andreotti, comunicatore e venditore come Berlusconi. Il modo in cui ha stretto e poi rotto il patto del Nazareno ricorda molto quello in cui Craxi trattò De Mita al tempo della staffetta. Ottenuta una proroga di un anno grazie ad Andreotti, suo successore designato, Craxi, nel 1987, la staffetta la fece saltare, e Andreotti dovette aspettare altri due anni prima di tornare a Palazzo Chigi.
Del divo Giulio il giovane Matteo riporta alla mente l’assoluta indifferenza nella scelta delle alleanze. I partiti sono come taxi si prendono per arrivare a destinazione, verrebbe da dire, citando la massima del fondatore dell’Eni Enrico Mattei. Forza Italia ieri serviva e oggi no; ma lo stesso potrebbe accadere al Ncd, se dovesse alzare troppo il prezzo e se il gran lavorio in corso al Senato, tra “stabilizzatori”, “responsabili” e “irrobustitori”, riuscisse alla fine a creare una terza gamba per il governo.
Del vecchio Silvio, che dopo la fine del Nazareno si sente tradito dal “ragazzo” amato come un figlio, Renzi ha copiato il linguaggio della comunicazione: le conferenze stampa spettacolari con le slides, le invenzioni, prima tra tutte la rottamazione, i colpi a sorpresa. Gli ha anche rubato qualche argomento, come la polemica con i magistrati, fuori dall’armamentario classico di sinistra. Della quale sinistra, intesa come quel che resta del Pci, della Cgil e dell’opposizione all’antica, in grado di esercitare un potere di veto sul Parlamento, Matteo non fa mistero di volersi liberare. È l’ostacolo più alto sulla sua strada, difficile da superare, impossibile da aggirare. Nella Prima Repubblica, Renzi farebbe bene a rammentarlo, si diceva pure che le volpi, prima o poi, finiscono in pellicceria.
Marcello Sorgi
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Su lavoro e impresa impegni mantenuti. Sulla burocrazia no
Su lavoro e imprese le promesse sono state in gran parte mantenute; sui vincoli che burocrazia, giustizia amministrativa, giustizia civile, pongono all’attività economica, i risultati sono ancora da vedere. Un impegno importante, la delega fiscale, è ancora in sospeso benché ereditato dal precedente governo; restano dissensi su che cosa significhi un «fisco amico del cittadino» (e forse anche su quali siano i cittadini a cui ci si riferisce).
All’estero la riforma delle leggi sul lavoro è stata accolta con favore: il tentativo di rendere stabili anziché precarie la gran parte delle nuove assunzioni, se funzionerà, potrà indicare la strada anche ad altri Paesi. Organizzazioni internazionali e centri studi danno un giudizio positivo sia della nuova disciplina per i licenziamenti – su cui ancora tanto si contende – sia dell’allargamento dell’indennità di disoccupazione.
Un dei tre punti del programma immediato di Matteo Renzi era una «riduzione a doppia cifra del cuneo fiscale» (differenza tra costo del lavoratore per l’impresa e paga al netto delle tasse). Tra gli 80 euro al mese e le modifiche all’Irap l’obiettivo si può ritenere raggiunto: 15-20% di riduzione circa. Sui nuovi assunti a tempo indeterminato, e solo per i primi tre anni, l’Ocse calcola che grazie alle agevolazioni del «Jobs Act» il cuneo sia più che dimezzato: -53%.
Un altro punto di programma cruciale era lo sblocco dei debiti della pubblica amministrazione verso le imprese. Al 30 gennaio risultavano già pagati 36,5 miliardi di euro e gli enti debitori avevano risorse per pagarne altri 6; poiché manca ancora una cifra certa sull’ammontare totale dei debiti, nella peggiore delle ipotesi si può supporre che ne siano stati saldati un po’ meno della metà, nella migliore i due terzi.
Stefano Lepri
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Il grande comunicatore twitter e foto profilate. Ma anche troppa tv
La comunicazione (anche se non esattamente la fantasia) al potere. Ovvero, lo sbarco in pompa magna a Palazzo Chigi di quello che del renzismo (post-ideologico) costituisce l’architrave, al punto da avere determinato la conversione dello stesso “Matteo” in un brand. E qui c’è, forse, il nucleo davvero “rivoluzionario” del suo primo anno di governo.
Il premier-coach, figlio dello spirito dei tempi postmoderni, è un uomo politico fortemente orientato alla costruzione diretta del consenso e alla ricerca della popolarità saltando a piè pari l’intermediazione delle “macchine di partito”. Per arrivarci ha lavorato (insieme al portavoce-spin doctor Filippo Sensi) su quella che il marketing chiama “comunicazione di marca”, dove il marchio da veicolare è, chiaramente, lui stesso, al tempo stesso comunicatore naturalmente versato e talentuoso e politico piacione. Di qui, il profluvio di selfies insieme a fan e cittadini-elettori (rappresentazione esemplare della democrazia del pubblico), e di foto prontamente riversate su Instagram (come quelle dei suoi shopping di libri, sempre molto “sul pezzo”). Storytelling all’ennesima potenza, fondato sui gusti diffusi della cultura pop (in un’altra epoca si sarebbe detta di massa) e sul modello della following leadership, in cui il capo si sintonizza su propensioni e tendenze largamente esistenti in seno alla popolazione. E la narrazione si svolge specialmente sui social, ove il primo presidente del Consiglio 2.0 è attivissimo. Ma nel mirino di Renzi non c’è solo la twittersfera: il paradigma del partito pigliatutto, con il quale punta a rimodellare il sistema politico, lo sta infatti applicando anche ai media, in primis la tv, dove di recente risulta assai presente. Perché, appunto, il “premier-sindaco d’Italia” è il politico della comunicazione integrale (e totale).
Twitter@MPanarari
Massimiliano Panarari
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In molte cancellerie ancora non lo vedono come uno statista
L’immagine più deflagrante del rapporto fra l’Europa e il Renzi allergico ai riti di Bruxelles è quella del premier che sfila fuori da Palazzo Justus Lipsius dopo il vertice dicembrino e canticchia «Parole, parole, parole». Nelle visite ai summit di Bruxelles, come dalle puntate a Strasburgo per il semestre di presidenza Ue, il capo del governo s’è dimostrato più volte insofferente davanti alle frequenti manifestazioni di un burocrazia che gli pare autoalimentarsi. Sarebbe però riduttivo trasformare tutto ciò in una patente di scettico, se non altro per la frequenza con cui ripete «che le riforme le facciamo per noi e non perché le chiede l’Unione». Renzi vede il Futuro dell’Italia in Europa e con l’Europa. Solo, vuole sia diverso.
C’era all’inizio qualche diffidenza, del resto tutti amavano la sobrietà istituzionale di Letta. È svanita quando è diventato «Mister 40.8%». Il voto europeo ha spostato gli assetti, aiutando il premier a cementare relazioni bilaterali promettenti, con la cancelliera Merkel come col presidente Hollande. È partito a testa bassa, poi ha imparato a giocare di sponda. La carta Mogherini per la poltrona di Lady Pesc; o la spinta decisiva a spostare l’attenzione dell’Ue dall’austerità alla crescita. Tutto scorre, con un «ma». In molte cancellerie non lo vedono ancora «statista». Serve tempo. E forse un po’ di euroinsofferenza ostentata in meno.
Marco Zatterin