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 2015  febbraio 19 Giovedì calendario

L’addio a Michele Ferrero. L’imprenditore che ha reso pensabile l’impensabile, che ha saputo reinventare il futuro anche qui in provincia, ma anche un uomo normale. Ad Alba migliaia di persone si sono strette in piazza Duomo per un ultimo saluto al re della Nutella

 Questo non è il funerale dell’uomo più ricco d’Italia. È il funerale di Michele. «Che il giorno di Ognissanti, entrando nel Duomo da un ingresso laterale per non farsi riconoscere, è stato accolto da un applauso. Perché tutti noi volevamo dirgli che conoscevamo le sue sofferenze. E lui si era commosso».
Michele. Solo Michele. Anche adesso. Con tutta Alba raccolta, pigiata stretta, davanti al sagrato. Con cinque nipoti in piedi, le facce pallide, nel primo banco.
Con gli operai che lo aspettano vestiti da lavoro, vicini ai chierichetti.
Lo portano in Duomo alle 11 di mattina per l’ultima volta, dentro una bara ricoperta di fiori bianchi. Sono venuti a rendergli omaggio il premier Matteo Renzi, l’amico Romano Prodi, tutte le più alte cariche istituzionali del Piemonte. Eppure Michele. «E il dolore ci scuote e ci lacera», dice il vescovo Giacomo Lanzetti. «Senza alcuna finzione retorica, oggi viene a mancare un campione della nostra terra. Tutti siamo concordi nel segnalare la grandezza non solo imprenditoriale, ma morale e umana di Michele. Tutti ci sentiamo più orfani e più poveri».
Questo è il funerale di Michele Ferrero, l’imprenditore che ha inventato la Nutella, l’Estathè e gli ovetti Kinder, vendendoli in tutto il mondo. E forse, si sta celebrando anche la fine di un’epoca, è il non detto della giornata, la paura che riempie molti silenzi. I negozi sono chiusi per lutto. Chi non è per strada, è affacciato ai balconi. Ogni cosa è stata organizzata con rigore, senza il minimo sfarzo, come avrebbe voluto lui. Lungo le vie del centro storico, i volontari aspettano già dalle otto di mattina. Danno indicazioni. Fanno largo a Michele. Aspettano di capire cosa succederà. «Giovanni farà un discorso?», si domandano bevendo caffè caldo dai termos. Parlerà l’erede?
È il momento più toccante della giornata. La famiglia Ferrero ha sempre centellinato le dichiarazioni, come da insegnamento del patriarca. Chiamarsi per nome. Lavorare tanto. Parlare poco, meglio se in piemontese. Tenere salde le proprie radici, guardando con coraggio al futuro. La messa è quasi finita, quando il figlio di Michele Ferrero si alza e va verso il microfono. È emozionato. Ha gli occhiali, la camicia bianca, un sorriso di dolcezza. La chiesa ammutolisce, così come ogni piazza gremita. «Parla, parla...».
Sono stati giorni molto duri per Giovanni Ferrero. Ha sorretto la madre Maria Franca, anche fisicamente. Si è alternato con la moglie Paola, nel ringraziare una ad una tutte le diecimila persone che hanno affollato la camera ardente. Adesso tocca a lui. È il suo momento. Il microfono amplifica il rumore dei passi, mentre si avvicina. Incomincia così: «Cosa dire? Ci sono forse parole per esprimere lo smarrimento, il dolore, il riserbo che proviamo per la scomparsa di Michele? No. Noi tutti crediamo che non ve ne siano di appropriate. Per questa terra, lui ha reso pensabile l’impensabile. Ha dimostrato che la storia di successo di un’azienda potesse affondare le sue radici proprio qui, in un tessuto sociale della Malora fenogliana, che partiva dal gradino più basso della scala del benessere. Quello di un tessuto sociale composto perlopiù da contadini poveri. Certo, da allora la città si è arricchita. Ma non è questo il suo primo lascito, un lascito materiale. Con la sua chiaroveggenza, con la sua visione a tendere, Michele ha spinto un poco più in là le frontiere del possibile. Di come si possa e si debba reinventare il futuro anche qui in provincia».
Giovanni Ferrero ha ribadito con orgoglio una visione del mondo. «Per mio padre l’aspetto sociale è sempre venuto prima del profitto. “Delocalizzare”, “razionalizzare”, “cassa integrazione” non sono mai state pronunciate, non per strategia nella contrapposizione sindacale: il patto tra le due forze ha reso quei termini per noi inconcepibili».
Persino lui. Non lo chiama mai suo padre. Non qui, davanti a tutti. «Michele ha sempre saputo guardare avanti. Ha sempre pensato che la fabbrica fosse per l’uomo e non l’uomo per la fabbrica». Undici minuti di discorso, concluso citando Sant’Agostino: «Non rattristiamoci per averlo perso, rallegriamoci per averlo avuto». Era quasi l’una. È scoppiato un lunghissimo applauso che non voleva finire. Non è stato l’ultimo della giornata.
È difficile raccontare quello che è successo dopo. Le autorità sono uscite da una porta laterale. Il premier Renzi ha dichiarato: «Sono venuto ad Alba per onorare un grande italiano, una storia incredibile di talento, territorio e valori umani». Il vescovo ha detto nel microfono: «Per favore, aspettate che esca la famiglia di Michele». Tutto il paese ha aspettato in silenzio, ancora qualche minuto. Poi si è messo in fila lungo le strade, formando una lunghissima catena umana. Corso Coppino, piazza Savona, corso Europa, via Ognissanti. La carreggiata era vuota, i marciapiedi pieni di persone: in mezzo passava il carro funebre fra gli applausi. E dietro il feretro, c’era la famiglia di Michele. A piedi, lentamente, tenendosi stretti, verso il cimitero, ancora ringraziando e sorridendo. Per l’ultima volta, alla fine, sono passati davanti alla fabbrica. E lì davvero, il padrone Michele, l’erede Giovanni, gli operai della Ferrero, la città di Alba e questo pezzo di Piemonte antico e orgoglioso, sembravano tutti parte della stessa storia. Dello stesso destino.