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 2015  febbraio 19 Giovedì calendario

Negoziare? Sì, ma con chi? In Libia ci si trova davanti a una pluralità di contendenti armati, e alla dimensione islamismo/anti-islamismo si aggiungono quella regionale e quella tribale. Ecco perché diplomazia e azione militare tendono a essere sempre meno separabili

Si è discusso molto delle difficoltà di un eventuale intervento militare in Libia, di cui sarebbero in ogni caso da definire aspetti quali possibili quadri multilaterali e base di legittimità internazionale. Negli ultimi giorni è sembrato tuttavia che certi entusiasmi prematuramente manifestati nei confronti dell’ipotesi di un intervento militare si siano raffreddati, e si concorda ora nell’affermare che la via diplomatica rimane quella da preferire. Fra i problemi che rendono difficile immaginare un intervento militare vi è quello di decidere quali forze l’intervento militare esterno sarebbe chiamato ad appoggiare e quali a battere. Non possiamo certo nasconderci dietro la foglia di fico di un’imparzialità che è o un’impossibilità o una menzogna, come fu quella dell’«intervento umanitario» del 2011, che consistette in realtà in un determinante appoggio militare alla ribellione armata contro Gheddafi.
Ebbene, questo problema esiste anche se invece dell’opzione militare dovessimo focalizzarci sulla via diplomatica. Anche in questo caso si dovrà decidere chi sono quelle forze che potrebbero, con il nostro appoggio, ricostruire (o forse sarebbe più corretto dire: costruire) uno Stato libico in grado di garantire la sicurezza dei propri cittadini e nello stesso tempo scongiurare le minacce alla nostra, dal terrorismo alla partenza incontrollata di migranti dalle coste libiche.
Il problema è che oggi in Libia non ci troviamo di fronte a uno Stato e a un anti-Stato, ma a una pluralità di contendenti armati, a una guerra civile frammentata e difficilmente leggibile, tanto più che alla dimensione islamismo/anti-islamismo si aggiungono quella regionale e quella tribale. A Tobruk esiste il governo di Abdullah al-Thani (o piuttosto del Generale Haftar), in teoria internazionalmente riconosciuto, ma che in realtà ha, sotto il profilo politico-militare, solo il deciso appoggio dell’Egitto – un Egitto che, fra l’altro, ha individuato nelle varie diramazioni nazionali dei Fratelli Musulmani – piuttosto che dei jihadisti dell’Isis – il nemico principale. L’unica soluzione politica credibile sarebbe quella di un compromesso fra Tobruk e Tripoli, cioè tra i nazionalisti non islamisti di Tobruk e gli islamisti moderati di Tripoli – un’intesa capace di isolare e quindi sconfiggere le forze jihadiste. Il problema consiste nel fatto che è impossibile ragionare in termini di rapporti di forze tra le fazioni libiche senza introdurre l’elemento degli appoggi esterni, senza i quali le varie milizie sarebbero già da tempo senza armi e fondi.
Per definire la Libia di oggi non basta la pur evidente dimensione di una violenta anarchia. Bisogna aggiungere la «guerra per procura» fra Egitto da una parte, che appoggia il governo di Tobruk, ormai con azioni militari dirette e palesi, e Turchia e Qatar dall’altra, questi ultimi in sostegno di quella parte dell’islamismo armato che fa riferimento (anche se non senza ambiguità e zone grigie) all’ideologia dei Fratelli Musulmani.
In un certo senso, l’auspicata via diplomatica non esiste più allo stato puro, come alternativa netta a quella militare, ma dovrebbe ormai essere concepita in relazione a un intervento militare ancora strisciante ma del tutto reale e difficilmente reversibile. Anche in Libia, come in Ucraina, diplomazia e azione militare tendono a essere sempre meno separabili. Chi negozia deve saper tener conto della realtà sul terreno, ma anche viceversa, dato che chi combatte non può ignorare il contesto politico-diplomatico.