la Repubblica, 19 febbraio 2015
«Negro, via dalla metro». Quei tifosi razzisti del Chelsea che indignano l’Europa. A Parigi, prima del match di Champions contro il Psg, hooligans inglesi spintonano e cacciano dal treno un ragazzo di colore: «Felici di essere così»
Questa volta non c’è bisogno di interpretare il labiale. “We are racist and that’s the way we like it”, cantavano i passeggeri sul metro alla stazione Richelieu di Parigi, dopo avere ripetutamente spintonato un nero fuori dal treno, poco prima che si giocasse Psg-Chelsea, ottavi di Champions League. Gli aggressori: chiaramente inglesi, probabilmente tifosi della squadra ospite. La vittima: apparentemente: francese. Ma a perdere, come si suol dire, è tutto lo sport, nella fattispecie il calcio, di nuovo investito dal virus del razzismo. «Un comportamento ripugnante» afferma un comunicato del club londinese, offrendo sostegno a un’incriminazione dei responsabili e minacciando di metterli al bando nel proprio stadio. La polizia parigina ha aperto un’indagine, quella inglese sta già collaborando, entrambi con l’obiettivo di identificare i colpevoli: in caso di processo e condanna, in Francia rischiano un massimo di tre anni di carcere e 45mila euro di multa. In Inghilterra Scotland Yard fa sapere che potrebbero scattare le misure anti-hooliganismo che da queste parti hanno ripulito il football da violenza e discriminazioni, ovvero divieto a vita di seguire le partite, obbligo di firma in commissariato e altre restrizioni. Perfino il primo ministro britannico si sente in dovere di intervenire: «Un episodio estremamente inquietante e preoccupante, su cui le forze dell’ordine faranno piena luce» dice David Cameron. Su Twitter arriva anche il commento di Sepp Blatter, presidente Fifa: «Nel calcio non c’è posto per il razzismo». Purtroppo è spesso un pio desiderio piuttosto che un dato di fatto. Il filmato (girato da un espatriato inglese con il telefonino e poi dato al Guardian) non solo dovrebbe rendere semplice l’identificazione degli ultrà del Chelsea che si proclamano orgogliosamente “razzisti e contenti di esserlo”, ma fotografa un facinoroso tipico: capelli corti o rasati a zero, giubbotto nero, felpa con cappuccio. L’immagine del sottoproletario bianco inglese, frequentemente associato a formazioni politiche di estrema destra: in passato gli hooligan delle squadre della massima serie militavano per lo più nel National Front, organizzazione fascista. Prezzi più alti, severi controlli, punizioni esemplari, hanno contribuito ad allontanarli dagli stadi. Ma fuori dagli stadi sono ancora visibili: basta entrare nei pub nelle vicinanze di molte arene sportive per incontrarli. E quando possono seguono la squadra in trasferta, come sembra sia accaduto a Parigi. «Sono una esigua minoranza che non ha niente a che fare con noi» dichiara l’associazione dei tifosi del Chelsea, vantandosi di sostenere squadra “di proprietà ebraica” (tale è l’origine del petroliere russo Roman Abramovich) e piena di “giocatori neri e stranieri”. C’è anche chi prova a difendere gli autori dell’aggressione al nero in metrò: «Il razzismo non c’entra, quel tipo era un tifoso del Psg, sul treno non c’era più posto, per questo è stato spintonato», dice un inglese che viaggiava sullo stesso vagone. Ma perché allora il canto razzista? «Non lo so». Forse, soggiunge il testimone, alludeva ad altro: al commento razzista di John Terry nei confronti di un avversario nero, lo scorso campionato, costato quattro giornate di squalifica al difensore del Chelsea. Tesi non molto credibile, ma che smaschera il problema di fondo: il razzismo, nel calcio inglese come in quello di altri paesi, c’è eccome, in campo, sugli spalti, fuori dallo stadio. È opera di una minoranza, che tuttavia può causare guai per tutti. La campagna “Kick it out” (Dai un calcio al razzismo) tenta di educare il pubblico. Ma intanto, per tenere a bada il fenomeno, bisogna usare il pugno di ferro.