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 2015  febbraio 19 Giovedì calendario

Sull’avanzata dell’Isis le cinque grandi potenze del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sono bloccate a causa degli interessi sul petrolio e dei veti incrociati. Solo gli sceicchi possono sciogliere i nodi della crisi

Ultima dea sempre invocata e mai ascoltata, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è stato chiamato ancora una volta a coprire con la propria bandiera blu azioni e decisioni prese da altri. Ma sotto la bandiera, niente. Di fronte alla disintegrazione della Libia e all’infezione dell’Is, che si diffonde lungo la Grande mezzaluna araba dal Golfo Persico all’Atlantico, regnano l’indecisione e il dissenso sotterraneo fra i cinque membri permanenti del Consiglio, Usa, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, quelli che contano, nascosti da appelli e moniti senza denti.
Scontate la condanna e l’esecrazione per la violenza degli assassini con la bandiera nera, non esiste, e non è stato prodotto neppure da questa riunione di emergenza chiesta da Egitto e Francia, invocata dall’Italia sull’orlo del panico e accettata da un’America riluttante, un consenso fattivo sulle azioni da lanciare per fermare la marcia dell’Is. È il limite strutturale, si potrebbe dire la tara genetica, dell’Organizzazione che in questo 2015 compie 70 anni e li dimostra tutti, questa incapacità di passare dalle parole ai fatti e all’”enforcement”, al rispetto delle proprie risoluzioni spesso serenamente e impunemente ignorate dai destinatari. Un limite aggravato dal confronto con un’entità indefinibile, amorfa e transnazionale come il cosiddetto Stato islamico che Stato non è, e dunque non può neppure essere condannato, isolato o sanzionato come una nazione canaglia.
In più, nel caso della Libia, una tragedia in corso che investe da vicino l’Italia ma che sfiora soltanto marginalmente quattro delle cinque potenze con il diritto di veto, la cronica impotenza dell’Onu è intessuta delle lunghe code di paglia che proprio coloro che le dovrebbero sciogliere hanno invece trascinato. Nessuno dei “top player”, dei giocatori chiave, non gli Usa, non la Russia, non la Francia, non il Regno Unito e neppure la Cina, avviata a diventare il primo importatore di petrolio nel 2025 e dunque attentissima al destino politico del grandi bacini del greggio, può dirsi estraneo, disinteressato o con la coscienza limpida.
Il Gheddafi che fu abbattuto dall’aggressione franco-britannica del 2011, ha ricordato la folle Guerra di Suez contro Nasser nel 1956, ultimo spasmo dell’eurocolonialismo che saldamente collocò, insieme con Israele, l’Europa sul fronte nemico del nazionalismo arabo allora in chiave socialista. Fu fermata soltanto dalla saggezza di Dwight Eisenhower e dalla minaccia di un intervento dei sovietici, che avevano fatto dell’Egitto, come della Siria, nella Guerra fredda uno dei protetti del Cremlino, in chiave cinicamente anti Nato e antiamericana.
Washington, protagonista della follia reaganiana del 1986 con il bombardamento degli accampamenti del raìs condotto aggirando l’opposizione degli alleati Nato come Spagna e Italia, sa di avere contribuito alla disgregazione della Libia e alla crescita dell’Is, dalle sventurate guerre bushiste per «cambiare i regimi» all’indecisionismo obamiano di fronte alla Siria, all’Iraq e al Kurdistan. L’unica nazione araba amica rappresentata soltanto come membro non permanente nel Consiglio, è la Giordania che ha già da tempo lanciato la propria vendetta contro l’Is in Siria, dopo la morte atroce del pilota catturato, senza preoccuparsi di Onu e di sanzioni.
Appellarsi alle Nazioni Unite per giustificare eventuali operazioni militari volte a stabilizzare la Libia e a smontare la macchina dell’efficace propaganda sanguinolenta dell’Is diventa un alibi per non fare niente, o per sentirsi autorizzati, come gli egiziani e i giordani, a muoversi come cavalieri solitari. O per aspettare che siano, come sempre, gli Stati Uniti a riempire di sostanza quel sacco vuoto che è il Palazzo di vetro. Ma per lo scandalo e gli anatemi della destra repubblicana, puntellata dalla propaganda di network televisivi e dei soliti falchi da teleschermo come il senatore McCain – già patrono proprio dei jihadisti quando sembravano utili – Obama esita e svicola. Apparentemente è più preoccupato di quanto accade fra Siria e Iraq anziché della catastrofe libica o dei barconi di profughi spiaggiati in attesa di lanciarsi verso l’Italia.
Degli europei Obama non si fida come gli europei non si fidano di lui, e la Casa Bianca non ha alcun desiderio di farsi risucchiare in un’altra guerra per il petrolio libico, essendo gli Stati Uniti ormai sempre più vicini all’autonomia energetica. Il Pentagono, che soltanto con le sue dieci portaerei nucleari in servizio attivo capaci di lanciare complessivamente fino a mille cacciabombardieri potrebbe sbriciolare le città costiere della Libia, sa perfettamente di essere il solo ad avere le forze per dare senso a un intervento militare che non siano le punture di spillo egiziane. Ma sa anche, come sa Obama, che ovunque l’America intervenga, i cocci – secondo la famosa formula del generale Colin Powell – saranno suoi, e la responsabilità di un altro fallimento e di altre maree di antiamericanismo, sarà sua.
Le sole nazioni che potrebbero detenere le chiavi di una soluzione, almeno temporanee, non erano e non sono presenti al Consiglio di sicurezza, e sono l’Arabia Saudita e gli Emirati del Golfo. Come già avvenne in Iraq, quando il disastro parve temporaneamente fermarsi, non furono i proiettili e i missili americani a scuotere i clan sunniti, ma le bordate di dollari che piovvero su di loro sganciate dai Sauditi. Le risoluzioni del Consiglio di sicurezza, figlie di intenzioni nascoste, di code di paglia, di calcoli cinici come quelli di Putin, ben lieto di vedere gli europei e gli americani impigliati in un problema che allontana l’attenzione dall’Ucraina e dall’espansione dei confini russi verso Ovest, serviranno soltanto se nel caos libico, nel crogiolo dei due governi, dei due parlamenti, degli almeno 14 clan che si contendono la Libia, pioveranno carote, prima che bombe. Ma non accusiamo l’Onu di impotenza e di inefficacia. Le Nazioni Unite restituiscono soltanto quello che ci investiamo in volontà politica. Molto poco.