La Stampa, 18 febbraio 2015
Boom per il business degli scafisti: diecimila sbarchi in un mese e mezzo. Per le milizie è uno strumento di finanziamento
Arrivano, il flusso sembra imponente, come se fosse primavera. Siamo già a 7686 stranieri sbarcati dal primo gennaio. Di questo passo, a fine febbraio supereranno i diecimila. Duecentomila, quattrocentomila. Con il passare delle ore e il precipitare della crisi, sembra che la Libia si stia prosciugando di anime e disperati. Insomma, che un flusso inarrestabile di migranti si stia per riversare sulle nostre coste. Con l’ambasciata italiana formalmente chiusa, ormai la Libia da un certo punto di vista è una «perfetta sconosciuta» (si fa per dire). «All’ultimo incontro ufficiale, era il maggio scorso, che avemmo a Tripoli – racconta chi partecipò a quell’incontro – i funzionari libici ci dissero che c’erano settecentomila, ottocentomila stranieri pronti a partire».
Naturalmente, vai a fidarti dei numeri libici. Se fossero solo la metà di quanto rappresentato sarebbero comunque un bel numero. In ogni caso, stiamo parlando del maggio scorso, dieci mesi fa. E tante cose sono cambiate (in peggio) da allora.
La sensazione è che l’industria del traffico di clandestini, gestito dalla nuova mafia, dai rappresentanti etnici (questa è l’analisi del vescovo di Tripoli, monsignor Martinelli, fatta a questo giornale) in questi giorni stia lavorando a pieno ritmo. Più cresce l’instabilità e la paura, più si crea la domanda di partenza. E gli interessi delle mafie si sposano con la necessità delle milizie di fare cassa, di creare moneta per pagare gli stipendi ai miliziani.
In questo scenario, andrebbero aggiornate fino a un certo punto le mappe sulle frontiere terrestri del sud della Libia, da dove entrano i migranti. E poi i porti da dove salpano per la traversata del Canale di Sicilia.
È sempre l’oasi di Kufra, laddove si incrociano i confini tra Libia, Egitto e Sudan, da dove passano le carovane di migranti del Corno d’Africa, di parte della fascia subsahariana. Essendo il confine del Ciad ancora interdetto perché minato dagli Anni Ottanta, quando Gheddafi occupò un pezzo di Ciad. Poi c’è il valico di Al Qatrum, che confina con il Niger, e infine l’area, che è terra di nessuno, tra l’Algeria e la città di Ghat. Ecco, queste sono le località simbolo da dove entrano i flussi migratori. Ma oggi, va aggiunto, le frontiere della Libia non sono controllate da forze di polizia o militari e dunque potrebbero essere state aperte nuove rotte d’ingresso.
Da Kufra, il pellegrinaggio porta i disperati a raggiungere la costa, Al Beida, Bengasi e poi il viaggio per Sirte, Tripoli. E sono sei i porti da dove partono le imbarcazioni, i gommoni, i pescherecci. Iniziando dai confini con la Tunisia, è Zwarah il porto delle partenze. È il numero uno in tutto il Mediterraneo, sicuramente. Poi Sabratha, l’antica città dei mosaici e del teatro romano. Sorman, Janzour, e nei pressi di Tripoli, Tajoura e Garabulli. Anche ai tempi del regime di Gheddafi, a partire dal 2000, i numeri sui flussi migratori venivano branditi come clave dal regime. Gheddafi chiudeva un occhio, anzi due. Si parlava di un milione e più di stranieri pronti ad assaltare le coste italiane. Non è un caso che proprio per i grandi numeri dei flussi migratori, per i Paesi coinvolti (dalla Cina all’Europa, all’America centrale e gli Usa) la questione dell’immigrazione è diventata una questione di sicurezza nazionale.
Giovanni Toti di Forza Italia cita Winston Churchill per spiegare la sua posizione sulla Libia e la critica al governo troppo «pacifista»: «Al termine della conferenza di Monaco del 1938, quando le potenze alleate cedettero alle inaccettabili pretese di Hitler, Churchill profetizzò così: “potevano scegliere tra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore, avranno anche la guerra”». E Toti chiosa: «La sinistra non cambia mai».