Corriere della Sera, 18 febbraio 2015
«Benvenuti nel fortino del giornalismo». Il quotidiano danese Jyllands-Posten è blindato. La redazione è circondata da reti, sbarre, filo spinato, monitorata da 120 videocamere di sorveglianza, senza contare i controlli su auto e personale
«Terrorhegn». Il cartello in metallo all’inizio della salita non è proprio di benvenuto. La traduzione letterale sarebbe «recinto del terrore», ma queste paratie piantate ai bordi di una strada di campagna somigliano più a un muro, alto quasi tre metri.
La sede del Jyllands-Posten sembra una ambasciata americana in uno Stato ostile. Siamo a Viby, un sobborgo di Aarhus, nel sud della Danimarca, prati verdi e mucche al pascolo. Eppure all’ingresso della redazione viene inevitabile pensare alla guerra, a suggestioni irachene. La barriera di reti, sbarre e lastroni metallici che circonda per un chilometro la redazione del terzo giornale danese è adornata con filo spinato e 120 videocamere di sorveglianza.
All’interno del compound ogni strada che porta ai due edifici, uno per i giornalisti e l’altro per l’amministrazione, ogni strada è disseminata da blocchi di pietra che hanno l’evidente compito di fermare eventuali autobombe. L’ingresso del parcheggio ha lo stesso meccanismo delle chiuse dei fiumi.
Si apre una porta, entra una sola vettura, quando la prima porta si richiude si apre quella di fronte. I redattori possono entrare in ufficio solo una alla volta. Ognuno di essi ha un codice personale da digitare sulla porta blindata, non scambiabile perché legato a dati personali. «Benvenuto nel fortino del giornalismo». Jorn Mikkelsen, direttore dal 2008, fa una smorfia. «Non avremmo mai voluto tutto questo, ma abbiamo dovuto obbedire alle autorità. Certo, così viene difficile mantenere rapporti con i nostri vicini... In Europa stiamo vivendo un nuovo tipo di guerra, che riguarda la cultura, i valori che vogliamo conservare, e solo da ultimo la religione». A gentile richiesta, il direttore si limita a recitare i concetti espressi nell’editoriale pubblicato dopo gli attentati di Copenaghen. Ai giornalisti è proibito parlare di quel che è stato.
Tutto è cominciato qui. «La decisione venne presa in quell’ufficio». Il caporedattore Fleming Ostergaard indica una normale sala riunioni al primo piano, chiusa da una porta a vetri. Era dieci anni fa. Il 30 settembre 2005 il Jyllands-Posten, giornale conservatore da 90.000 copie ma pur sempre sconosciuto al mondo, a corredo di un articolo sulla libertà d’espressione pubblicò 12 vignette satiriche che ritraevano il profeta Maometto. Niente fu più come prima. Un gruppo estremista pachistano mise una taglia sulla testa dei disegnatori, le ambasciate danesi vennero prese d’assalto. E se uno pensa che Charlie Hebdo cominciò la sua carriera «blasfema» ripubblicando quelle caricature, il filo che collega la quieta Viby a Parigi, e poi a Copenaghen, diventa ancora più evidente.
La blindature degli uffici venne imposta dai servizi segreti dopo le minacce ricevute nel 2008 e nel 2010. C’è voluto un anno per tirare su il muro di reticolati e metalliche. Il livello di pericolo viene giudicato così alto che l’assicurazione del giornale è decuplicata dal lontano 2005. «Noi siamo la dimostrazione che nel mondo globalizzato dove le informazioni corrono veloci il contesto si perde e lascia spazio a ogni tipo di manipolazione e malafede» ha detto una volta Fleming Rose. Quelle pagine erano sue. Era il responsabile della cultura. Oggi è ancora in forza al giornale, ma è diventato altro, un testimone della libertà di espressione, sempre in viaggio per conferenze, sempre sotto scorta, la memoria storica di un episodio che in tanti al Jyllands-Posten vorrebbero dimenticare.
«La verità è che dopo tutto quel che è successo una operazione del genere non sarebbe più possibile». I due giovani e anonimi redattori violano la consegna del silenzio mentre fumano in cortile. Ma come si vive in un giornale che sembra una caserma in territorio nemico? «Ci si abitua. Ci si abitua a tutto. Forse il nostro problema è proprio questo».
Lanciano uno sguardo verso l’orizzonte. Le mucche, i prati, i camion sulla provinciale che porta ad Aarhus. In mezzo c’è il muro.