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 2015  febbraio 18 Mercoledì calendario

Libia, quel «piano Marshall» italiano mai decollato. L’accordo del 2008 con il nostro Paese, ovvero il Trattato di Bengasi, prevedeva progetti infrastrutturali per 5 miliardi

Il 29 agosto 2010 Gheddafi scende dall’aereo scortato da due amazzoni in alta uniforme e il basco rosso per celebrare a Roma il secondo anniversario del trattato di Bengasi con il quale all’articolo 4 promettevamo «di non permettere atti ostili contro la Libia». È atteso da uno stuolo di politici e industriali. Hanno aspettato sotto il sole, sudati e nervosi, ma al suo arrivo tirano un sospiro di sollievo. L’anno prima si era presentato con appuntata sulla divisa una foto dell’eroe della resistenza anti-italiana Omar al Mukhtar, suscitando perplessità e polemiche.
Questa volta è addobbato con la tradizionale tunica bianca e gli immancabili occhiali da sole: quello che a soli 29 anni, nel ’69, era stato il protagonista del colpo di stato contro la monarchia si era trasformato in una figura caricaturale ma sempre più corteggiata per le immense ricchezze.
Il Colonnello in Italia si permetteva tutto. Nell’inseparabile tenda piantata sulla Cassia ricevette 500 giovani fanciulle cui impartì lezioni di Corano. Il giorno seguente lo show continuò alla caserma Salvo d’Acquisto con un carosello di 27 cavalli berberi e 800 invitati, con i big dell’economia che sgomitavano in prima fila.
Il Colonnello sapeva come tenere desta l’attenzione del suo pubblico. Nella famosa tenda incontra il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e dichiara: «Avete una straordinaria industria della difesa vogliamo fare più accordi anche in questo settore».
I volti dei nostri governanti si illuminano: il Trattato di Bengasi del 2008 prevedeva progetti infrastrutturali per 5 miliardi di dollari con fondi italiani che sarebbero poi finiti alle nostre aziende sotto forma di appalti. Una sorta di partita di giro per creare commesse e lavoro. Ma questa volta Gheddafi lancia l’amo. Sul piatto non ci sono soltanto 1.700 chilometri di autostrada costiera ma anche contratti per Finmeccanica e Fincantieri. Un giro d’affari potenziale, sostenuto dai Fondi sovrani libici, stimato in 20 miliardi di euro. I francesi, che ora hanno appena venduto all’Egitto caccia Rafale per 5 miliardi, sarebbero schiattati d’invidia.
Questo business nella difesa si aggiungeva a quello nel settore energia, culminato con la realizzazione nel 2004 del gasdotto Greenstream e perfezionato dall’Eni con un accordo di concessione per l’estrazione di petrolio fino al 2047. Italia, Eni e Libia sembravano legati da un cordone ombelicale con prospettive di lungo termine indissolubili. Dalla Libia importavano il 25% dei nostri consumi di petrolio e il 10% di quelli di gas. Soltanto l’Eni aveva annunciato in quel periodo investimenti per 25 miliardi di euro nella gloriosa repubblica popolare.
La Libia insomma per noi valeva almeno 50 miliardi di euro di affari. Non solo, Tripoli era entrata con una quota significativa nel capitale Unicredit (7%) e aveva acquisito partecipazioni minori (2%) in Eni e Finmeccanica.
Gheddafi era sempre stato un socio scomodo ma utile. Portava capitali freschi nel mezzo di una crisi finanziaria mondiale. A metà degli anni ’70 era entrato nella Fiat. «I libici? Si comportano come banchieri svizzeri», disse di loro l’avvocato Giovanni Agnelli, omettendo però di citare che avevano chiesto il licenziamento del direttore della Stampa.
In realtà agli affari con Tripoli non rinunciava nessuno. Con la riabilitazione di Gheddafi, il premier Tony Blair riportò la Bp in Libia dopo 33 anni di assenza, per non parlare di Nicholas Sarkozy che pur di ingraziarsi il Colonnello per aggiudicarsi contratti della Total in Cirenaica arrivò persino a offrire un programma nucleare civile. Non male per un signore che qualche tempo dopo decise di bombardarlo e sostenere la rivolta di Bengasi.
Nella schiera degli opportunisti gli italiani non erano soli ma gli altri si sono dimostrati più svelti ad approfittare della primavera araba.
Così come adesso non abbiamo capito in tempo che si sta definendo la spartizione delle sfere di influenza tra Cireanica e Tripolitania con una nuova e sanguinosa guerra per procura. Grandi aspettative deluse, sogni infranti, conti in rosso: la nostra ex colonia ora naviga alla deriva e da terra (degli altri) promessa da Giolitti e Mussolini diventa persino una minaccia.