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 2015  febbraio 18 Mercoledì calendario

Le scivolose alleanze nel mondo arabo. Dopo la Giordania in Iraq, ora anche l’Egitto in Libia ha raggiunto la prima linea della guerra all’Isis. In apparenza senza più tentennamenti, un numero crescente di Paesi nostri alleati nella regione, sembrano avere strategicamente individuato il vero pericolo per l’Islam e il Medio Oriente: un pericolo che per loro dovrebbe essere più chiaro e immediato di quanto non lo sia per l’Occidente. Ma è una mobilitazione solida e affidabile o continuiamo ad avere alleati riluttanti?

Abile e arruolato, dopo la Giordania in Iraq, ora anche l’Egitto in Libia ha raggiunto la prima linea della guerra all’Isis. In apparenza senza più tentennamenti, un numero crescente di Paesi nostri alleati nella regione, sembrano avere strategicamente individuato il vero pericolo per l’Islam, il mondo arabo, il Medio Oriente: un pericolo che per loro dovrebbe essere più chiaro e immediato di quanto non lo sia per l’Occidente. Ma è una mobilitazione solida e affidabile o continuiamo ad avere alleati riluttanti?
Capirlo per noi è fondamentale. Serve per definire una volta per tutte il nostro comportamento in Libia. Fino al giorno prima delle immagini sulla terribile esecuzione del suo giovane pilota, l’opinione pubblica giordana chiedeva al re di uscire dalla coalizione contro il califfato: compreso l’influente clan beduino al quale apparteneva il pilota.
È la legge del taglione, non una scelta politica, che ha spinto la Giordania a rimanere nella coalizione e ad essere più efficace nei bombardamenti in Iraq. Convincendo anche gli Emirati a riprenderli, dopo che li avevano silenziosamente sospesi. In questi Paesi come in Arabia Saudita e in Turchia molti continuano a chiedersi se sia giusto combattere con gli americani e i “crociati” (non solo lo sceicco al Bagdadi chiama così noi europei) contro dei sunniti che pure interpretano male le Scritture: un equivalente islamico dei compagni che sbagliano.
Ed è ancora per una vendetta che l’Egitto da ieri attacca le posizioni del califfato in Libia. Senza l’assassinio delle povere vittime copte, probabilmente non lo avrebbero fatto. In realtà, sebbene lo neghino, gli egiziani avevano già bombardato la Libia insieme agli Emirati, ma per colpire il governo di Tripoli guidato dai Fratelli musulmani locali: in un certo senso era l’allargamento a un altro Paese della guerra che il governo dell’ex generale al Sisi conduce contro la fratellanza egiziana.
È in questo terreno scivoloso che l’Italia dovrebbe decidere se, come e con chi mandare migliaia di militari in Libia. Ma prima di combattere l’Isis con gli anfibi della Folgore sul suolo libico (un’ipotesi che, per esempio, Barack Obama esclude per la 101^ aviotrasportata in Iraq) dovremmo chiedere ai nostri alleati di cessare la loro guerra per procura. Se il governo di Tripoli sostenuto da Qatar e Turchia e quello di Bengasi armato da Emirati ed Egitto, non trovano un compromesso per spartirsi equamente il potere, è perché i loro padrini e finanziatori li istigano: per interessi regionali, fanno loro credere di poter vincere e conquistare tutto il potere. Il che non è vero. Prima di occuparsi dell’Isis, dunque, occorre convincere quei Paesi a smettere di mestare in Libia.
Non sono la Corea del Nord o l’ayatollah Khomeini. Sono nostri alleati: la Turchia del cui ingresso nella Ue eravamo i principali sostenitori, del Qatar il cui emiro ha casa sull’Appia Antica, degli Emirati ai quali abbiamo affidato il salvataggio dell’Alitalia, dell’Egitto che la settimana prossima sarà visitato da una delegazione di cento imprenditori italiani, oltre quelli che già operano in un interscambio proficuo e antico. È a questi amici e soci in affari che dobbiamo chiedere di fare il loro lavoro, prima di finire in una palude nella quale prima o poi tutti, compresi i nostri alleati, ci chiameranno crociati.