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 2015  febbraio 17 Martedì calendario

Intervista a Natalia Ginzburg (luglio 1963)

La storia che racconto nel primo paragrafo dell’intervista è vera, sebbene lei non ci creda. Ero una liceale abbastanza povera, i soldi per comprarmi i libri di scuola venivano tolti al mangiare e, poiché con quei soldi avevo preso il suo libro, per tutto l’anno scolastico dovetti fare a meno della tavola dei logaritmi; anche per questo bocciai a matematica. Amavo quel piccolo libro perché mi piaceva lei, ciò che sapevo di lei, lei era la vedova di Leone Ginzburg morto a trentaquattr’anni di torture e percosse durante l’occupazione tedesca, e perché mi piaceva il suo stile secco, virile. Da grande volevo anch’io scriver romanzi e sognavo di conoscerla per chiederle insegnamenti, consigli. Conoscerla non mi sarebbe stato difficile: era amica degli amici di mio padre, ancora legata benché comunista al gruppo di Giustizia e Libertà. Ma non ebbi mai il coraggio di dirlo ed è strano che l’incontro sia avvenuto dopo tanti anni, quando il suo piccolo libro m’era ormai uscito dalla memoria ed avevo compreso che nel mestiere di scrivere non esistono insegnamenti o consigli, bisogna scrivere soli, senza imitare nessuno, attingendo scoperte dai nostri errori e dalla nostra fatica che è la fatica più solitaria del mondo. anche strano che quella mattina suonassi piena di timidezza alla porta della casa romana dove abita col secondo marito, lo studioso di letteratura inglese Gabriele Baldini. Io non sono timida quando intervisto la gente. L’abitudine ad avvicinare le persone più disparate ha cancellato in me ogni complesso o imbarazzo. Chiunque siano e per quanto importanti esse siano non riesco mai a dimenticare che alzandosi dal letto entrano nel bagno a lavarsi la faccia, come me, e qualche volta piangono, come me. Ma forse, più che timidezza, era paura d’essere in qualche modo delusa. Visti da vicino gli scrittori fanno spesso il medesimo effetto degli attori: deludono. Sono spesso vanitosi, incapaci di umiltà, e meno intelligenti di quanto siano o appaiano quando scrivono libri.
Non è il suo caso e lo sentii appena venne ad aprire, la porta socchiusa inquadrò il volto teso, esitante: il volto di tutti gli ebrei che conobbero il terrore di una scampanellata, l’incertezza che annunciasse un amico che veniva a aiutarti o un tedesco che veniva a arrestarti. In quel volto, un sorriso che era piuttosto una smorfia: la smorfia di tutti coloro che per anni non seppero dove nascondersi ed a un certo punto non si nascondevano più, rassegnati salivan sui camion, rassegnati si lasciavano piombare nei treni, rassegnati si lasciavan rubare vestiti oro e capelli, rassegnati si lasciavan condurre nei forni. Poi, non ero dunque un tedesco, la porta si spalancò e la inquadrò per intero: una donna non bella e non elegante, vestita di un golfino bluette e di una gonna bluette, l’aria un po’ goffa di certe zie cui si ha sempre un favore da chiedere e di cui non si conosce l’età. Quaranta? Cinquanta? I suoi capelli son neri, con qualche filo di grigio ma raro. Il suo corpo è sodo, diritto. Le sue gambe son solide, da camminatrice. Di rughe ne ha ma più che rughe son pieghe che probabilmente esistevano anche quando era giovane. Colpisce, nella sua perpetua tristezza e nel suo non dimenticato timore, l’aspetto sano: robusto. certamente una donna che dorme bene, digerisce bene, porta valigie pesanti senza ansimare, non è mai stata ammalata, ha sempre partorito con facilità e per questo è sopravvissuta agli stenti e ai dolori.
La timidezza diminuì mentre mi conduceva nel salone arredato con mobili inglesi e pieno di libri, sul caminetto un’antica edizione di Proust che ha tradotto splendidamente, poi mi faceva sedere su un grande divano chiedendomi premurosa se volevo un caffè. Svanì del tutto quando andò in cucina a fare il caffè, poi tornò con la tazzina e mi sedette accanto, con le braccia conserte, a ripetere: "Ma sarò capace di far questa intervista? Io non sono capace di parlare, ecco. Mi spavento, mi impappino, ecco. Verrà una cosa moscia, ecco. E poi, poi niente. Ecco". Punteggia qualsiasi frase di "ecco", "poi, poi niente", "ecco": un vezzo di cui non si accorge e usa, credo, per sminimizzare ogni cosa, trasformare anche i fatti più gravi in fatti qualsiasi. La sua voce è graziosa, una voce che hanno generalmente le donne fatali: stupisce come se fosse la voce di un’altra, ed affascina. Con quegli ecco, quel poi, poi niente, quella voce, mi affascinò un’intera mattina rispondendo ubbidiente a qualsiasi domanda, accettando docile qualsiasi argomento: compresa la morte di Leone Ginzburg della quale non ama parlare né scrivere sebbene siano passati vent’anni. Di Ginzburg ripeteva sempre che era brutto, bruttissimo, intelligente e bruttissimo, serio e bruttissimo, colto e bruttissimo, sicché a un certo punto le chiesi se avesse una fotografia e lei si alzo, andò al piano di sopra, tornò con la fotografia incorniciata di un bel giovanotto dai riccioli neri, il gran naso israelita, le lenti da miope sugli occhi severi. "Ma non era brutto!" esclamai. E lei sorrise contenta, coi grossi denti cui manca un canino ma cosa le importa se il buco si vede, poi posò la fotografia sopra un tavolo e per qualche secondo rimase a guardarla, in silenzio, le mani strette sulla cornice, la testa piegata sopra una spalla come certe Madonne inginocchiate ai piedi del Figlio. In seguito si dimenticò di levarla e la fotografia restò lì, a guardarci con gli occhi severi, il ricordo ossessionante di "allora".
La conversazione era spesso interrotta dalle telefonate dei figli che essa ebbe da Ginzburg e che ormai sono adulti, sposati, hanno i loro figli, ma lei li tratta come se fossero ancora piccini. E: "Mi raccomando, Alessandra, non tenere la finestra chiusa quando accendi il gas nella stanza da bagno", "Mi raccomando, Carlo, metti il golf di lana la sera: lo sai bene che i raffreddori si prendono anche d’estate". Dopodiché tornava da me e riprendeva il discorso su "allora", il terribile inverno che arrestaron Leone e lei andava a Regina Coeli a portargli il mangiare ma non aveva mai nulla di buono da portargli, non si trovava mai nulla, e due giorni prima che morisse gli portò quelle uova che forse non erano fresche: così per tanti giorni la dilaniò il rimorso che fosse morto perché lo avevano avvelenato le uova, le uova, le uova. Ignorava, a quel tempo, che Leone non poteva neanche inghiottirle le uova, non poteva inghiottir nulla, gli avevano spaccato una mascella a forza di botte, ed era morto perché il cuore non aveva retto alle torture, non per via delle uova. Io la ascoltavo in silenzio, per la prima volta dacché fo queste interviste frenando una gran voglia di piangere, e mi sembrava d’esser tornata bambina quando anche noi, senza essere ebrei, vivevamo nel terrore di una scampanellata, l’incertezza che annunciasse un amico che veniva ad aiutarti o un fascista che veniva ad arrestarti. Una volta sofferta, l’esperienza del male non si dimentica più, essa scrisse una volta. E dalle sue frasi scarne, pudiche, tornava in me, anche in me lo strazio di allora, l’angoscia di quelle giornate, la paura di quei biglietti che dovevo portare ed esser pronta a mangiare se mi fermava un fascista, mio padre che dice presto bambina vai ad avvertire che il tale è stato arrestato, le corse in bicicletta, senta, ha detto il babbo di non andare in quel posto, il tale è stato arrestato, Cristo!, bambina, digli a tuo padre che anche il tale è stato arrestato, che lui dorma in un altro posto stanotte; e poi il ricordo del mattino in cui il babbo era stato arrestato, in mezzo a una piazza, con altri tré, e noi lo aspettavamo e lui non tornava, lo aspettavamo il pomeriggio, la sera, la notte, il mattino seguente, il pomeriggio seguente, la sera seguente, la notte seguente, e lui non tornava, e non sapevamo neanche se era stato arrestato, finché lo sapemmo, e ce lo fecero anche vedere, a me e alla mia mamma, nel parlatorio del carcere: un omino senza cintura, senza cravatta, senza lacci alle scarpe, un viso giallo e gonfio di botte, una voce gentile che ripeteva non preoccupatevi, al massimo mi manderanno in Germania, se mi mandano tento di buttarmi dal treno. Solo che mio padre era tornato e Leone Ginzburg non era tornato. Era morto senza che lei lo rivedesse nemmeno una volta, senza che ne risentisse la voce nemmeno una volta, non poteva neanche cercarlo perché non scoprissero il suo vero nome, dicevano d’essere fratello e sorella anziché moglie e marito, e così era morto con la sua mascella spaccata, la sua speranza finita, solo in una stanzina dalle pareti sporche, mentre il giorno entrava a righe dalle inferriate. La cosa assurda è che mentre dicevamo, pensavamo queste cose, io avevo voglia di piangere e lei no, la mia voce tremava e la sua no. Parlava anzi con labbra ferme, occhi fermi, immobile su quel divano, le braccia conserte, e quando le chiesi di scrivermi la poesia che dedicò a Leone, anni addietro, anche le sue dita erano ferme. Con dita ferme riempì il foglio bianco, con dita ferme me lo porse perché lo leggessi.
Due sere dopo il nostro incontro ci fu, al Ninfeo di Villa Giulia, l’assegnazione del Premio Strega: che lei non sperava di vincere. Il mio articolo era già fatto e spedito, non mancava altro che aggiungervi se fosse arrivata prima o seconda, e non avevo nessuna voglia di andare a mischiarmi coi mèmbri dell’assurdo partito che chiamano mondo letterario, i noiosi signori che a parlarci risultano sempre meno intelligenti di quel che siano o appaiano quando scrivono libri. Ma la curiosità di vedere Natalia Ginzburg tra loro e il desiderio di farle gli auguri fu più forte del timore di una serata spiacevole, e andai. Era quasi mezzanotte, un’attrice in ricami di strass, Rossella Falk, segnava su una lavagna i voti delle ultime schede. Sul palco, spalmata di cerone e dipinta come una diva del muto, gonfia di chiffon violetto e simile a un’immensa farfalla carnivora, troneggiava con agghiaccianti sorrisi l’ideatrice del premio, Bellonci Maria. Accanto a lei, il mecenate: un signore garbato che fabbrica gazzose e un liquore giallo di nome Strega, celebre anche per aver recitato nel ruolo di un produttore nell’ultimo film di Fellini. L’atmosfera era quella di una festa paesana o dell’elezione di una Miss Qualchecosa. I fotografi facevano ressa come al Palazzo del Cinema quando c’è il Festival, croniste vestite di azzurro tendevano i visucci pettegoli in cerca di cosine da scrivere, e letterati compromessi col fascismo quindi non irresponsabili delle morti dei Ginzburg pontificavano sul valore degli aggettivi e il problema se il romanzo sia ancora valido sul piano narrativo-espressivo. In mezzo a tutto questo era lei che reggeva in mano una boccettina di Strega e ogni tanto se la portava goffamente alle labbra. Per l’occasione s’era data un poco di cipria e s’era messa un vestito nuovo: di maglia nera con un filino d’argento. Taceva, inseguendo chissà quali pensieri, e quando Barzini disse che aveva vinto continuò a tacere. Goffamente, umilmente, salì sopra il palco fra l’attrice in strass, il mecenate, l’immensa farfalla carnivora; goffamente, umilmente, prese il milione in assegno; goffamente, umilmente posò pei fotografi con l’assegno teso tra le mani. E sembrava davvero mia zia il giorno in cui vinse al Luna Park un servizio di piatti e bicchieri e si vergognava moltissimo che la gente stesse a guardarla mentre il banditore diceva puntate, puntate, vedete che bel servizio di piatti e bicchieri ha vinto questa signora.
Certo a nessuno quanto a Natalia Ginzburg il titolo di questo libro, Gli antipatici, si addice così scarsamente. Per nessuno quanto per lei va preso come un gioco, uno scherzo. Fra tutte le donne di questo libro essa è la migliore e quella che suscita i sentimenti migliori. Dice Natalia Ginzburg che quando si scrive bisogna scordare i sentimenti, usare al loro posto distacco e ironia. Ed io penso che abbia assolutamente ragione: ma scrivendo di lei non riesco, non riuscirò mai a scordare i sentimenti che suscita in me, usar l’ironia che le è cara e mi è cara. Il foglio su cui scrisse con la sua calligrafia contorta e infantile i versi su Ginzburg io l’ho incorniciato e l’ho appeso in camera mia.
ORIANA FALLACI: C’è la copia di un suo libro, signora Ginzburg, che vorrei mostrarle: quello che lessi nei primi anni del dopoguerra quand’ero un’adolescente con una gran voglia di scrivere e, per imparare a scrivere, divoravo libri con una golosità che non ho mai più provato. Una mattina andai a comprare, nella libreria dinanzi al liceo Galilei di Firenze, la tavola dei logaritmi e sul banco c’era quel libro: Natalia Ginzburg, stato così. Era un libro molto piccolo, con un ritratto di Modigliani sulla copertina, e cominciava, ricordo, con la frase "Gli ho sparato negli occhi". Io avevo i soldi precisi per la tavola dei logaritmi e anziché quella comprai il suo libro che subito lessi e per molti mesi tenni sempre con me. Vorrei mostrarglielo perché è cincischiato come un libro di scuola, pieno di appunti così: "Ripassare Bergson e il pragmatismo", "Ricordarsi di Erodoto", "Farsi prestare la tavola dei
logaritmi". Sul risvolto della copertina c’era la sua fotografia: un volto maschile, doloroso, quasi tagliato nel legno. Mi piaceva, quel volto, perché non sembrava il volto di una scrittrice ma assomigliava al volto di mia zia: una brava donna senza civetterie che tiene tanto bene i bambini, si diverte a lavare per terra, e va matta per il cinematografo...
NATALIA GINZBURG: Anch’io ecco. Io non sono brava in casa, ecco, non so fare pietanze preziose, il mangiare anzi lo faccio rozzamente, però mi piace pulire per terra, ecco, sciacquare lo straccio mi da una specie di sfogo, ecco. E poi mi piace il cinematografo, non capisco la musica e il teatro mi annoia, il cinematografo invece. Nei due anni che ho passato a Londra perché mio marito Gabriele Baldini insegnava laggiù, mi consolavo sempre col cinematografo, ecco. La civetteria, ecco: a volte mi do un poco di rossetto e di cipria, per vestire ho sempre usato gonne e golfini perché coi vestiti veri mi vedo tanto brutta e non so mai come comprarli. Magari ne comprerei cinquecento, capisce, perché ho le mani bucate e non credo al risparmio, capisce, né per i soldi né per le cose dello spirito. Non si dovrebbe mai metter da parte soldi, sentimenti, pensieri: perché dopo non si usano più.
Sì, l’ho letto nel suo libro di saggi: Le piccole virtù. La storia dello specchio dentro la cornice dorata che lei vide passare su un barroccino. Lo specchio rifletteva un cielo verde e lei pensò che un giorno lo avrebbe scritto, questo cielo verde dentro uno specchio, ma non lo scrisse subito e non lo scrisse più.
E poi so tenere bene i bambini, ecco. Non ho mai fatto un golf per loro, non mi riesce come non mi riesce stirar le camicie, però so tenere i bambini: ne ho avuti quattro e Carlo il maggiore ha già una bambina, Alessandra la terzogenita si è sposata anche lei e partorisce fra un mese. Sono già nonna, ecco. Oh, grazie. Invece si vede, grazie. Ma non m’importa. Mi importa, semmai, l’invecchiare. Ecco. Prima pensavo che non mi importava invecchiare, invece mi importa eccome perché invecchiando si diventa un’altra cosa. In fondo io mi sento come quando avevo ventisei anni, ventisette, invece ne ho tanti di più e questo mi fa pensare che sono diventata un’altra cosa, e mi pesa più delle rughe, più dei capelli grigi. Il fatto è che i vecchi non mi hanno mai interessato: come i preti. O meglio, i preti non mi piacciono: escluso Giovanni XXIII che mi piaceva tanto e don Giuseppe De Luca, morto anche lui. I vecchi non li vedo, ecco. Non avrei mai scritto un romanzo su un vecchio come non avrei mai scritto un romanzo su un prete. Come condizione umana mi interessa la giovinezza, la maturità, ecco.
Si sente dai suoi libri. Stavo per dirle infatti che li ho letti tutti dopo quel stato così comprato coi soldi di un libro di scuola. E non solo perché erano belli, non solo perché lei era la vedova di Leone Ginzburg, ma perché mi raccontavano sempre quel volto maschile, doloroso, quasi scavato nel legno. E questo bellissimo Lessico famigliare...
Ora le dico tutto di questo libro che è nato in due mesi, ecco, e prima non ci pensavo neanche, ecco. Avevo messo insieme Le piccole virtù e pensavo soltanto di scrivere cinque o sei cartelle su come parlavano nella mia famiglia. E poi, poi niente. Poi è venuta fuori un mucchio di roba, insemina un libro. Il 15 ottobre si sposò mia figlia, il 16 cominciai il libro, prima di Natale era fatto. Ecco. che quando scrivo mi prende una gran tensione, ecco, mi sento come posseduta dal demonio, ecco, allo stesso tempo ho paura che mi succeda qualcosa per cui devo smettere: e vado avanti di fretta, ecco. Lavoro soprattutto la notte, scrivo a mano perché a macchina non mi riesce e poi, poi niente. Ho scritto la storia della mia famiglia.
Questa straordinaria famiglia dove tutti sono intelligenti e antifascisti: vista tuttavia allegramente, quasi fosse una famiglia qualsiasi. Signora Ginzburg: non si è posto il problema che la sua famiglia se ne offendesse?
Sì, me lo sono posto. Ma quando uno deve scrivere un libro, deve scriverlo. Comunque lo dissi a Gino, il mio fratello maggiore, e Gino non ci trovò nulla a ridire. Anzi, veniva spesso il giovedì, da Milano, e suggeriva cose che non rammentavo. Mio padre, lui, avevo paura che si arrabbiasse. Invece ha capito il libro e ha detto soltanto che lui non gridava, non sbatacchiava le porte. Gridava eccome, le sbatacchiava eccome : invece. Ecco, non vorrei sembrare superba ma ho notato che il libro non piace ai conformisti. Chi si sente offeso, chi dice vergogna li ha presi in giro, è sempre un po’ conformista e coi conformisti io non ci so stare: come con i politici, ecco. La vedo sorpresa, perché?
Perché so che si è occupata di politica e tutta la sua vita è stata una partecipazione diretta o indiretta alla politica. Perché è stata la moglie di Ginzburg, e per la sua casa son passati tutti: da Turati alla Kuliscioff, dai fratelli Treves ai fratelli Rosselli.
Me ne sono occupata però male: da persona che non ci capisce niente. Ero antifascista,, non politica. Sono stata nel Partito d’azione ma perché quelli del partito erano amici miei. Sono stata comunista ma non perché avessi letto Il capitale. Quand’ero comunista facevo i comizi però mi sentivo sbagliata, ecco, invece di parlare leggevo, e una volta a Biella lessi così in fretta che ci misi un quarto d’ora anziché quaranta minuti, tutti mi fissavano delusi, una sensazione di gelo e insomma capii che non era il mio mestiere, ecco. Quando voto, ora, voto socialista ma per amore del socialismo: e non so mai per quale uomo votare, devo sempre chiedere i nomi ai miei figli. Di Turati ricordo solo quello che ho scritto, quest’ombra grande come l’ombra di un orso che era nascosto da noi e si rifugiava in una stanza quando suonava il campanello. Di Carlo Rosselli ricordo soltanto la chioma folta e la faccia ridente. Di Nello, di lui molto di più: ecco. Veniva sempre a Forte dei Marmi, i suoi bambini stavano sempre coi bambini di mia sorella Paola. L’ultima estate che lo vidi, la sua ultima estate, stava sempre con un cagnolino e quando leggemmo che lo avevano ammazzato, io e mia madre... Era primavera, mia madre ed io leggevamo il giornale sul balcone della nostra casa a Torino, la notizia era piccola : " I fratelli Rosselli uccisi a Bagnole sur l’Orne". Deve sapere che Carlo era quello che aveva messo in contatto mio fratello Mario con Leone Ginzburg e poi, poi niente.
C’è una cosa che mi ha stupito in quel libro, signora Ginzburg: questa esitazione, questo pudore a parlare fino in fondo di Leone Ginzburg. Tutti sanno che egli morì al sesto braccio di Regina Coeli, nel 1944, massacrato di botte dai tedeschi. Ma lei dice solo: "Poi Leone morì", e, quando ne parla, ne parla con una certa freddezza, ripetendo solo che era intelligentissimo e brutto.
Era brutto. Coi capelli neri e folti, bassi di attaccatura, gli occhiali cerchiati di nero, e dava l’impressione di essere nero, nerissimo. Lo conobbi che avevo diciassette anni e avevo scritto la mia prima novella. Mario entrò in camera mia e disse : " Dammi la novella che la faccio leggere a Benedetto Croce". Io gliel’ho data e poi sono andata di là a vedere Benedetto Croce che era questo Ginzburg tutto nerissimo e brutto. Ecco. Ginzburg mi ha detto che la novella gli piaceva e l’avrebbe mandata alla rivista Solario, che si stampava a Firenze. Infatti la mandò e così conobbi questo Ginzburg che aveva ventiquattr’anni ma ne dimostrava molti di più, serio e accigliato com’era. Ginzburg era nato in Russia da una famiglia molto ricca e, siccome la sua governante era toscana, la madre lo portava ogni anno a Viareggio. Dopo la rivoluzione la madre lo lasciò a Viareggio dove c’era un clima più tranquillo e rimase tagliato fuori. Ginzburg si riunì ai genitori solo quando essi si stabilirono a Berlino. Qui infatti rimase due anni, però era attaccato ali’Italia e così volle tornare in Italia. Ecco. Viveva a Torino, parlava l’italiano come il russo, e lavorava per Giustizia e Libertà. Veniva spesso a mangiare da noi o a trovarmi nel pomeriggio, questo Ginzburg, e ciò durò fino a quando Mario fu preso con Sion Segre alla frontiera svizzera. Oh, scusi, suona il telefono, scusi, è mia figlia Alessandra da Pisa, scusi, pronto Alessandra come stai? Sì, Alessandra. No, Alessandra. Guarda, Alessandra, devo dirti una cosa: quando fai il bagno lascia la finestra aperta per via dell’ossido di carbonio, capito? Dunque cosa dicevo?
Parlava di Leone Ginzburg. Dica, signora: è per lui che decise di firmarsi Natalia Ginzburg anziché Natalia Levi che è il suo nome di ragazza?
Ecco. Prima firmavo Natalia Levi. Poi Alessandra Tornimparte. Per motivi razziali. Sassa Tornimparte è il paesino da dove spedivamo i bauli, vicino a Pizzoli che è il posto dove io e Leone eravamo confinati. Poi Leone morì e io pensai: lui non stampa più libri, se firmo Ginzburg almeno e è qualcuno che stampa libri col suo nome. E poi, poi niente. Mi son tenuta il nome Ginzburg anche se ora sono la moglie di Baldini. Qualcuno ci ha trovato a ridire ma io li lascio dire. Ecco. Dunque dicevo che Mario scappò raggiungendo a nuoto la Svizzera come dico nel libro, Sion Segre invece finì al Tribunale speciale e ci finì anche Ginzburg che era amico di Mario. Io gli scrissi subito firmando Giulietta e continuai a scrivergli dopo che si prese quattr’anni. Lui mi rispondeva con lettere straordinarie, che sono le lettere che uno scrive a chi non è di famiglia. E poi, poi niente. Poi Leone uscì e noi ci sposammo. Poi Leone morì.
E quel dolore non è ancora guarito, vero signora Ginzburg? Sono passati vent’anni e non è ancora guarito. Per questo è così refrattaria a parlarne.
I dolori non guariscono mai: però a un certo punto si guardano con distacco. Io non riesco ancora a guardarvi con distacco: ecco. Ma come, dicono tutti, non hai raccontato la storia di Ginzburg, la morte di Ginzburg nel tuo libro? Perché? Perche non posso. Perché è troppo attaccata alla mia storia, perché è troppo vicina. Verrà un momento in cui la racconterò, questa storia, ma tra dieci, quindici, o due anni. Su Leone ho scritto solo una poesia.
Me la dica, per piacere.
No, mi vergogno. Dopo gliela scrivo e poi gliela leggo. La morte di Leone... è andata così. Ecco. La sera del 25 luglio noi eravamo a Pizzoli e Leone disse che andava a Roma. Andò a Roma, solo, poi a Torino dove gli prese il morbillo e. io credo che questo morbillo gli abbia lasciato conseguenze al cuore perché da quanto ho potuto ricostruire è morto d’infarto. Era stato molto picchiato e non gli ha retto il cuore: ecco. La morte di Leone... è andata così. Venne l’8 settembre e Leone mi scrisse di andare all’Aquila dove c’era uno bravo che nascondeva gli ebrei, oppure di raggiungerlo a Roma. Scelsi Roma e partii coi bambini e le valigie su un camion di tedeschi cui avevano detto che ero una sfollata di Napoli e avevo perso i documenti nel bombardamento. I bambini avevano quattro anni, tre anni, e la più piccola pochi mesi. Leone aveva un alloggio nel viale delle Province e qui restammo gli ultimi venti giorni della sua libertà. Dicevamo d’essere fratello e sorella, per via delle carte annonarie che erano false e intestate a nomi diversi. Leone diceva ai bambini di chiamarlo zio, non papa. Poi, poi niente. Usciva spesso e quando usciva io mi sentivo perduta. Ricordo il giorno che avevo fatto il bucato: appesi i panni e non avevo mollette per stringerli al filo, il vento li portò via, volarono giù nel cortile, io cercavo di recuperarli, giù nel cortile, e mi sentivo perduta. E poi un giorno si ammalò, aveva la febbre e si mise a letto. E poi un giorno si alzò, disse: "Devo andare", e andò, e lo arrestarono. Alla tipografia clandestina. In via Basento. L’agonia spaventosa di quella giornata. Torna, non torna. A un certo punto suonò il telefono, qualcuno disse: "Signora Ginzburg!", e subito riattaccò. Mi chiedo ancora chi fosse. E poi, poi niente. All’alba venne Adriano Olivetti per dirmi sì, l’hanno arrestato, e nascondermi con altri ebrei in un convento. Era un convento di monache e vi accadevano cose strane: a volte, all’ora del coprifuoco, le monache dicevano: "Stasera vengono i tedeschi". Io scappavo ma non avevo paura.
La paura, lei ha scritto cose terribili sulla paura. Quando dice ad esempio: "Non guariremo più di questa guerra. Non saremo più gente tranquilla. Una volta sofferta, l’esperienza del male non si dimentica più".
La paura, quando è sempre paura, diventa qualcosa di diverso. Diventa coraggio,, no, assuefazione. Ecco. Insomma, quando uno ha avuto troppa paura, non è che ne ha ancora. O impazzisce, o si ammazza, o non ne ha più. Io non ne avevo più. Leone era stato arrestato il 2 novembre, morì il 5 febbraio. Era stato messo al braccio italiano ma poi lo misero al braccio, tedesco, perché lo riconobbero, e questo fu il crollo di tutto. Ricominciai a sperare solo due volte: quando ci fu lo sbarco di Anzio e quando lo misero all’infermeria. Rossi Doria era nella stessa infcrmeria ed è lui che mi ha raccontato la morte di Leone. Poi, poi niente. Poi Leone mi ha fatto avere una lettera che ho ricevuto quando era già morto ed era una lettera senza speranza di uscirne vivo. Leone non ha mai avuto speranza di uscirne vivo. Leone era stato picchiato una seconda volta dai tedeschi, e gli avevano rotto una mascella. Leone è stato male, quella notte, e ha chiesto all’infermiere che gli chiamasse il dottore. L’infermiere però non ha chiamato nessuno e gli ha dato solo un caffè. E così Leone è morto e non c’era nessuno quando Leone è morto. Lo ha trovato morto lo scopino, all’alba, e lo scopino ha detto che doveva essere morto nelle prime ore dell’alba. Questo scopino è entrato e Leone era morto. Se non fosse morto di cuore e di botte, sarebbe morto alle Fosse Ardeatine. Un mese dopo ci furono le Fosse Ardeatine.
I suoi figli, signora Ginzburg. Cosa sanno i suoi figli? Come sono i suoi figli? Penso che siano diversi, i suoi figli, dai giovani che non sanno o non vogliono sapere o sanno con indifferenza.
I miei figli, io gli ho raccontato tutto. Ecco. Credo che abbiano capito, ecco. Sul loro padre ho sempre avuto un certo ritegno, così ho aspettato che fossero grandi e poi, poi niente. I miei figli sono seri, serissimi, e direi che rispetto a quel che eravamo noi della mia generazione alla loro età sono molto più liberi e quindi molto più forti. Ecco. Direi che sono consapevoli del dolore e delle catastrofi che possono piombare su loro e sono pronti e disposti ad affrontarle. Non so se il discorso sia valido per gli altri giovani e capisco come la pensa lei sugli altri giovani ma io non mi sento di fare una filippica contro i giovani d’oggi; ecco. Per i giovani d’oggi io provo una gran tolleranza, una gran simpatia, e trovo che abbiano più qualità della mia generazione, che sappiano affrontare meglio la vita : senza quei languori, quelle esitazioni, quelle incertezze della mia adolescenza. Ecco. Naturalmente molti non sanno ma non sempre per loro colpa. Io ho un’amica brava che ha fatto la Resistenza e ai suoi figli non aveva raccontato nulla, ho dovuto raccontare io il 25 luglio, l’8 settembre, in quel modo goffo, caotico che ho io di raccontare. Del resto nemmeno mia madre mi aveva raccontato le cose successe prima della mia nascita, mi aveva raccontato magari il 1848. Ecco.
Eppure lei ha scritto una volta che la sua è una generazione di uomini, di gente senza lacrime e forti.
Sì ma è una forza interiore, senza autorità. Non possiamo dare esempio di forza perché siamo senza autorità. Siamo incerti, malsicuri, forse troppo giovani per la nostra età, e non sappiamo comandare. Io non so comandare, non ho mai comandato, fuorché nelle cose elementari come " stai attento a non andare sotto le automobili", "mettiti la maglia di lana", "lavati la faccia". Tutte le volte che ho tentato di imporre la mia volontà non ci sono riuscita, dovrebbe vedere come mi rimproverano sempre i miei figli. Andrea, caro, non stare ad ascoltarmi, ti prego. Andrea, saluta la signorina e vai via. Andrea è il secondogenito, si è laureato ora in economia agraria. Andrea per favore mi faresti la spesa? Grazie, caro. Ricordati il basilico e i limoni e raccomandati che i petti di pollo siano freschi. Magari fai il nome, spiega che sono per me, così te li danno più freschi. Andrea, torni a casa a mangiare? Torna, eh? Oh, se n’è andato. E non mi ha risposto.
E lei non se la prende. Lei ha sempre l’aria di non prendersela, signora Ginzburg. Forse hanno ragione i suoi amici quando dicono: "Natalia ha superato il dolore in allegria". Forse è perfino felice.
No. Il dolore... io credo che si arrivi all’allegria attraverso il dolore, che dolore e allegria siano intrecciati.
Allora è serena. Ecco, non felice: serena. Lo sospettai leggendo quel delizioso racconto sui rapporti tra lei e suo marito: Lui e io. Strano: a parlare di lui non è refrattaria, lo fa anzi con enorme disinvoltura, umorismo. Ammesso che fosse sincera, in Lui e io.
Sincerissima. I nostri rapporti sono veramente quelli: però andiamo d’accordo. Del resto si capisce dal racconto, che andiamo d’accordo: dal giorno che ci conoscemmo, nel 1945, e lui era un bei ragazzo dalla voce un po’ nasale, io una donna stanca che si sentiva tanto più vecchia di lui. Non successe nulla, quel giorno, camminammo soltanto, io mi sentivo tanto più vecchia di lui. Poi ci ritrovammo nel 1949 a Venezia, per un congresso del Pen Club, e lui s’era fatto crescer la barba, sembrava meno giovane, e poi, poi niente. Poi ci sposammo. Lui venne a Torino e portò i bambini a vedere il Tannhàuser. Questi bambini piccolissimi portati a vedere il Tannhàuser. E io dietro, per docilità. E poi, poi niente. Ci sposammo, io e Gabriele. Gabriele, lui, è tanto diverso da Leone. Leone era sereno, equilibrato, di umore costante e senza mai scatti d’ira. Gabriele è una esplosione continua di cambiamenti continui, nello stesso momento scrive a macchina, ascolta un disco, fa la spesa, si pettina la barba: un turbine. Vedo che sorride: perché?
Pensavo a mia zia, cioè a lei, signora Ginzburg. Pensavo a queste scrittrici che non sanno mai assomigliare a una zia. Davvero lei non ha le stigmate esteriori della scrittrice e anche per questo mi piace, ecco.

Ecco. Nemmeno a me le scrittrici piacciono molto. Salvo eccezioni hanno un modo di fare così frivolo, quasi facessero del loro mestiere un costume. Spesso, quando scrivono, non riescono a liberarsi dei sentimenti, non sanno guardare a se stesse ed agli altri con ironia. L’ironia è una delle cose più importanti del mondo, perfino l’amore è sempre mescolato con l’ironia, perfino la conoscenza : ma le donne sembrano non capirlo. Sono sempre umide di sentimenti, loro, ignorano il distacco. Ecco. A me le scrittrici che piacciono sono poche: per esempio la Virginia Woolf di Passeggiata al faro, ed Elsa Morante, e una italiana dell’Ottocento che si chiamava marchesa Colombi e ha scritto un libro che si chiama Matrimonio in provincia, e una vecchietta inglese che si chiama Ivy Compton Burnett che scrive tutto dialogato e con educazione, con malignità, racconta le cose più tremende, le verità più orribili. Mi ha servito molto, lei, perché non riuscivo più a dialogare, in Tutti i nostri ieri non dialogavo per niente. Quand’ero ragazzina mi piaceva la Katherine Mansfield, ora meno. Ha un mondo così limitato, da passerottino; lo racconta con grazia, ma la grazia di un passerottino. Del resto io leggo poco. Rileggo Proust. Ecco.
Alludeva dunque a questo scrivendo nel saggio Il mio mestiere quella frase che mi piace tanto: "Desideravo terribilmente scrivere come un uomo, avevo orrore che si capisse che ero una donna dalle cose che scrivevo". Scrivere come un uomo: ecco.
Scrivere come un uomo vuoi dire scrivere col distacco, la freddezza di un uomo. Cosa di cui le donne sono raramente capaci. Il distacco dai sentimenti, soprattutto. Non significa scrivere fingendo d’essere un uomo. Una donna deve scrivere come una donna però con le qualità di un uomo. Per questo...
Per questo, direi, ci sono più uomini che scrivono che donne che scrivono; più uomini che scrivono bene che donne che scrivono bene. Scrivere, in fondo, è un mestiere da uomini. Lo riconosce anche lei quando dice: "E poi mi sono nati dei figli e io sul principio quand’erano molto piccoli non riuscivo a capire come si facesse a scrivere avendo dei figli".
Sì ma sbagliavo. Sì ma poi spiego che si scrive lo stesso. Io per esempio il primo anno che avevo Carlo avevo sempre paura che mi morisse sebbene fosse un bambino floridissimo: e quindi non c’era spazio per scrivere, c’era spazio solo per questo rapporto fra lui e me. Non potevo lasciarlo nemmeno col pensiero. Poi, poi niente. Poi a poco a poco ho capito che si poteva scrivere lo stesso, bastava trovar l’equilibrio, capisce, trovare requie e spazio negli affetti, capisce. Insomma se uno ha davvero necessità di scrivere, scrive lo stesso. E dire io non mi sposo, io non faccio bambini perché voglio scrivere è sbagliatissimo : creda. Uno non si deve privare della vita sennò a un certo punto si inaridisce e non scrive più niente, lo ricordi.
Lo ricorderò. E ora mi dica, signora Ginzburg. Ma come fa una donna come lei a frequentare quel partito che si chiama mondo letterario? Come fa a tollerarne le chiacchiere, il divismo, le mondanità, i cenacoli da caffè, i premi letterari sbagliati, i parassiti e le parassite che ci vivono intorno? A Torino, almeno...
I letterati, sa, bisogna frequentarli uno per volta: mai tutti insieme, come ambiente. Come ambiente è spiacevole: come tutti gli ambienti, del resto. Come amici separati invece possono essere carissimi. Roma, ecco, offre questo vantaggio: che, se si vuole, si può star soli. Torino invece no. A Torino, né grande né piccola, si sbatteva sempre il naso nella gente : ne venni via addolorata e sollevata, ecco. C’era un po’ di mancanza d’aria, a Torino. Non c’era più Pavese.
Anche Pavese era morto. Lei conosceva molto bene Pavese.
Sì, nel dopoguerra siamo diventati comunisti quasi contemporaneamente, noi due, e per due anni lavorammo nella stessa stanza alla casa editrice Einaudi. Avevamo i tavoli di fronte e io lo vedevo scrivere : scriveva, cancellava, si attorcigliava i capelli... Pavese era molto amico di Ginzburg e si appoggiava a lui come un figlio al padre piuttosto che come un amico a un amico. Era uno strano amico, Pavese. Affettuoso ma in fondo gli importavano soltanto le donne di cui si innamorava e i libri che scriveva. Si innamorava sempre e sceglieva accuratamente le donne che lo avrebbero piantato o reso infelice, quelle dure autoritarie crudeli : ecco la verità. Una buona remissiva tranquilla lui non se la sceglieva: ecco la verità. E così, dopo ogni delusione, parlava di ammazzarsi. Io lo conobbi, ragazzo, che usciva da una delusione amorosa, e parlava di ammazzarsi. Discuteva perfino i vari modi di ammazzarsi: la pistola, il gas, il veleno. Tra ironico e scherzoso, ma ne discuteva. Gli sembrava che non sarebbe mai riuscito a pigliarsi una moglie e quando gli sembrò di non poter nemmeno più scrivere, di aver detto tutto, e si trovò in quella Torino deserta, senza amici, era estate ed eravamo tutti lontani, e quell’americana che aveva sognato di sposare se n’era tornata in America, si ammazzò. Avremmo tutti voluto far qualcosa per lui ma era difficile, ecco. Non voleva essere aiutato, respingeva ogni manifestazione di affetto. E dire che Leone non credeva che Pavese si uccidesse.
Signora Ginzburg, mi legga quella poesia su Leone, per piacere.
La poesia... ecco... Va bene... "Gli uomini vanno e vengono per le strade della città. / Comprano cibi e giornali, muovono a imprese diverse. / Hanno roseo il viso, le labbra vivide e piene. / Sollevasti il lenzuolo per guardare il suo viso, / ti chinasti a baciarlo con un gesto consueto. / Ma era l’ultima volta. Era il viso consueto, / solo un poco più stanco. E il vestito era quello di sempre. / E le scarpe erano quelle di sempre. E le mani eran quelle / che spezzavano il pane e versavano il vino. / Oggi ancora nel tempo che passa sollevi il lenzuolo / a guardare il suo viso per l’ultima volta. / Se cammini per strada nessuno ti è accanto, / se hai paura nessuno ti prende la mano. / E non è tua la strada, non è tua la città. / Non è tua la città illuminata : la città illuminata è degli altri, / degli omini che vanno e vengono, comprando cibi e giornali. / Puoi affacciarti un poco alla quieta finestra, / e guardare in silenzio il giardino nel buio. / Allora quando piangevi c’era la sua voce serena; / allora quando ridevi c’era il suo riso sommesso. / Ma il cancello che a sera s’apriva resterà chiuso per sempre; / e deserta è la tua giovinezza, spento il fuoco, vuota la casa".
Grazie, signora Ginzburg. Mi perdoni, signora Ginzburg.
Roma, luglio 1963