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 2015  febbraio 17 Martedì calendario

«Sono tanti ma sono male armati. Hanno solo pick-up con mitragliatrici, razzi RPG, qualche mortaio e lanciarazzo». Pietro Batacchi, direttore della Rivista Italiana Difesa nonché esperto di balistica militare, parla dei tremila combattenti libici che si sono uniti all’Isis e della questione dei due governi

   L’Isis in Libia oggi conta un numero di combattenti che oscilla tra i 2 e i 3 mila, cifre decisamente superiori alle stime del Pentagono. A tutti i membri del Consiglio della Shura dei Giovani Islamici di Derna, si sono aggiunti molti uomini di ritorno dal teatro siriano/iracheno. Diverso il discorso che riguarda Sirte e la Tripolitania, dove è estremamente difficile stabilire chi appartenga ufficialmente all’Isis, chi è solo ‘affiliato’ o chi vorrebbe diventarlo per mere ragioni contingenti”.
   Pietro Batacchi, direttore della Rivista Italiana Difesa nonché esperto di balistica militare, spiega che secondo fonti del suo giornale, i ranghi del gruppo in queste aree sarebbero stati costituiti da bande locali attirate dal marchio Isis, ma anche da esponenti “scissionisti” della forte e numerosa Lybian Shield  – la milizia ombrello legata alla Fratellanza Musulmana e a realtà salafite, che sostiene il governo di Tripoli – e da “consiglieri” del nucleo originario jihadista infiltratisi dalla Cirenaica per dare inquadramento e coordinamento alle nuove reclute.
   Di che armamenti dispongono i jihadisti dell’Isis?
   Da quanto è possibile desumere dal materiale video disponibile, sembrerebbe che per ora l’armamento dei miliziani si limiterebbe a pick-up con mitragliatrici, razzi RPG, qualche mortaio e lanciarazzo. Armi più pesanti – carri armati, mezzi blindati, ecc. – al momento non sembrano rientrare nell’arsenale del gruppo.
   Su Twitter gli islamisti hanno però assicurato di essere in possesso di missili Scud.
   È propaganda per alzare la posta. Gli Scud di cui disponeva la Libia di Gheddafi sono stati smantellati nell’ambito di un accordo trilaterale con Usa e Regno Unito tra il 2004 e il 2009, e ciò che restava dell’arsenale è stato distrutto nei raid Nato del 2011.
   Perché è così difficile per le forze libiche fedeli al governo riconosciuto internazionalmente, fermare i militanti dell’Isis ?
   Il problema è che le forze del governo legittimo di Tobruk devono combattere anche i miliziani e i soldati del governo di Tripoli, quello non riconosciuto dalla comunità internazionale. Per questo la comunità internazionale non è intervenuta.
   È quindi per ora irrealistico pensare che ci sarà un intervento esterno?
   La nostra diplomazia, per ora credo stia ancora tentando di trovare un accordo tra i due governi libici, perché anche tra le forze islamiche che sostengono il governo autoformatosi di Tripoli, ci sono dei “pragmatici”, come quelli della milizia di Misurata, con i quali si può instaurare un dialogo per frenare gli integralisti.
   L’Italia è in grado di guidare un intervento in Libia?
   In Libano è riuscita a farlo e anche in Afghanistan per dieci anni, dove avevamo sotto di noi soldati americani e di altri Paesi, però sempre sotto l’egida dell’Onu. Resta il fatto che sono sempre interventi molto rischiosi perché si tratta di entrare in un contesto socio-culturale, oltreché politico, molto variegato che, nel caso della Libia, fa perno su una rigida divisione per tribù spesso in lotta una contro l’altra. Non è facile gestire questo ambiente se non lo si conosce a fondo anche sul campo.
   Quale sarebbe il modo più efficace per realizzare un intervento di successo?
   Oltre agli attacchi aerei, sarebbe necessario il dispiegamento di moltissimi soldati perché quando si fanno operazioni di contro-guerriglia occorre una presenza capillare per tenere il territorio e per conquistare la fiducia della popolazione. È fondamentale guadagnarsi il consenso della gente e in questo noi italiani siamo molto bravi. Ma non si può intervenire sull’onda dell’emotività.