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 2015  febbraio 17 Martedì calendario

Quando l’Italia va in guerra. Dal Libano alla Libia passando per il Golfo, la Somalia, il Kosovo e l’Afghanistan. «Un fritto misto di retorica e di omertà, di timore e di sapienza, di furbizia e buon cuore che non solo finisce per assomigliare a una specie di sfuggente neutralità, ma riattiva spassosi ricordi e scoppi d’ira, melodrammi e sarcastiche ammissioni dei propri limiti guerrieri»

È un interventismo minore, ambiguo e riluttante, se Dio vuole, quello che da venti o trent’anni va in scena in Italia, e forse merita rispetto proprio perché la guerra non è mai la cosa più semplice del mondo, né si rende più facile e più bella chiamandola – ah, le delizie dell’ipocrisia anglofona! – “peace-keeping” o come negli ultimi giorni “peace-enforcing”. Così in Libano (1982), nel Golfo Persico (1987 e 1990), nella prima guerra del Golfo (1991), come poi in Somalia (1992), in Kosovo (1999), in Afghanistan (2002), in Iraq (2003) e in Libia (2011) ogni volta è stato un tormento, o meglio: uno stranguglione. E siccome l’Italia è sempre l’Italia, ecco che questo mezzo interventismo inespresso e sorvegliato, questo spedire aerei, navi e soldati all’estero senza dirlo e talvolta senza neppure farlo, questo fritto misto di retorica e di omertà, di timore e di sapienza, di furbizia e buon cuore, insomma, non solo finisce per assomigliare a una specie di sfuggente neutralità, ma riattiva spassosi ricordi e scoppi d’ira, melodrammi e sarcastiche ammissioni dei propri limiti guerrieri.Quale altro paese al mondo, d’altra parte, avrebbe mandato a combattere un ammiraglio, l’indimenticabile Buracchia, che prima ancora di arrivare a destinazione dichiarava a Famiglia cristiana «Eh, con un po’ di saggezza la guerra si sarebbe evitata...»? E come è stato possibile bombardare la Serbia tenendo aperta l’ambasciata a Belgrado?Nel primo caso, agli albori di “Desert storm”, il premier Andreotti si liberò come un anguillone dalla stretta Nato per rivolgersi a Gorbaciov e addirittura Formigoni si portò a Bagdad con l’idea di liberare gli ostaggi di Saddam scongiurando il conflitto. Nel secondo, quatti quatti, i cacciabombardieri italiani formalmente volarono ex post sulla ex Jugoslavia, nel senso che il Parlamento diede l’assenso quando già avevano compiuto il loro triste compito ed erano sulla via del ritorno; e a rendere la faccenda ancora più singolare, ce li aveva mandati quello stesso D’Alema che qualche anno prima s’era segnalato a piazza San Pietro, con bimbo o bimba sulle spalle, a reclamare la pace sotto il balcone del Papa.Ci sono ovviamente ragioni storiche dietro a tutto questo. Il ricordo inconfessabile di Caporetto, del disastro fascista, dell’8 settembre. La Costituzione che ripudia espressamente la guerra. Il lungo predominio di culture politiche, la comunista e la cattolica, lontane se non ostili al Risorgimento e istintivamente restie alla prospettiva di uno Stato in armi. La presenza inoltre del Vaticano, sempre a favore della pace. E infine di un forte e fino a qualche anno fa anche fantasioso movimento pacifista cresciuto negli ultimi vent’anni con marce, camping, sit-in, grandi manifestazioni, donne in nero e bandiere arcobaleno esposte alle finestre.E tuttavia quasi sempre in Italia le missioni militari si sono intrecciate anche con le beghe della politica politicante. C’è chi ricorda – lo documenta una preziosa velina di Orefice – che nel 1995 qualche irresponsabile coltivò il progetto di un intervento nei Balcani per evitare il rischio di elezioni anticipate. E se una volta Ciriaco De Mita chiese il ritorno dei soldati italiani dal Libano mentre faceva il bagno, con i giornalisti che prendevano appunti camminando sul bordo della piscina dell’hotel “Villa Igiea” di Palermo, il record della confusione istituzionale va senza dubbio a Francesco Cossiga. Il quale Cossiga, come altri nel suo partito (Evangelisti, per dire, o Ciarrapico) collezionava soldatini di piombo; e devoto com’era agli alleati d’oltreoceano, rifuggiva in teoria da ogni vocazione pacifista, tanto che a un certo punto del settennato piantò un bella grana su chi dovesse comandare in caso di guerra (i democristiani istituirono naturalmente una bella commissione, affidandola al professor Palladin che produsse il più salomonico verdetto). Al momento di dare una lezione a Saddam, perciò, si disse favorevole come cittadino e presidente, ma come cattolico del tutto contrario all’intervento, fino a valutare l’ipotesi di dimettersi. Salvo poi coprire d’improperi un giornalista inglese che aveva osato ironizzare sulla scarsa attitudine bellica degli italiani.Anche su quest’ultima, fin dai tempi di Napoleone, e come si potrebbe documentare da un famoso articolo di Benedetto Croce fino al retroscena secondo cui Mamma Rosa fece promettere a Silvione suo di non mandare soldati fuori dai confini, esiste del resto una diffusa leggenda. Ma pure un’aneddotica inveratasi e aggiornatasi nel recente passato grazie ad alcuni fantastici incidenti, tipo il portellone bloccato che impedì ai bersaglieri di sbarcare in Libano o la “Vittorio Veneto” che si arenò con ignominia nella rada dinanzi a Valona.Di altro genere, ma meno divertente, la circostanza per cui alcune unità navali furono impiegate nel Golfo Persico per sminare delle mine, appunto, che però erano di fabbricazione italiana. In realtà, e al netto delle resistenze, delle avventure e delle trovate più o meno folcloristiche che si possono mettere in conto ai governanti e più in generale al ceto politico, nessuno può oggi sostenere che i soldati italiani non abbiano svolto il loro dovere fuori dai confini, spesso offrendo il loro contributo di sangue. Ma il punto delicato è che più spesso di quanto si voglia far credere chi non vede altra soluzione che la guerra e reclama l’intervento ha molto spesso qualcosa da nascondere. E anche se non ce l’ha, rispetto all’esperienza della storia e alla posta in gioco, è nel gioco democratico che ci sia qualcuno che glielo attribuisce.